mercoledì 30 dicembre 2009

Short Circuit




Credevo di vivere quasi nel 2010, l’era in cui le tecnologie avrebbero dovuto essere il nostro pane quotidiano, il tempo in cui tutti avremmo potuto approcciarci alle nuove innovazioni con facilità.
Mi guardo in giro, spaesata…

Una giovane ragazza, che conosco, di circa vent’anni, si avvicina ad una delle postazioni computer con le quali dovremo lavorare durante la lezione universitaria che sta per cominciare. Guarda lo schermo del pc e decide di spostarsi una fila più avanti. Le chiedo come mai ha cambiato idea cosicché lei mi risponde: “il computer non funziona“, le dico che è solo spento ma lei non tenta nemmeno di accenderlo, cambia posto ed è contenta.

Questo è solo uno dei tanti esempi che ho avuto modo di notare nel corso degli anni. Siamo tutti convinti che noi giovani accettiamo supinamente tutte le tecnologie e ci confrontiamo con esse più facilmente degli anziani ma non ne sono del tutto convinta. Penso sia, piuttosto, una predisposizione dell’individuo in sé: Michelangelo Antonioni non era un giovincello eppure adorava e cercava, confrontandovisi, le nuove frontiere delle tecnologie cinematografiche con lo stesso gusto che avrebbe un bambino a giocare con la neve.

Forse, il problema non sono le tecnologie ma la difficoltà nel comprenderle, mi spiego meglio: oggi la nostra società ci insegna a cercare l’immediatezza, non abbiamo più tempo da perdere nel cercare di capire come funziona qualcosa, abbiamo bisogno di avere a che fare con cose e situazioni di veloce comprensione altrimenti cadiamo vittime del tempo e dell’oblio del pensiero. 

Per questo ogni volta che la maggior parte di persone, giovani o anziani che siano, (e credetemi, sono più di quelle che voi possiate immaginare), si devono avvicinare a qualche nuova invenzione tecnologica hanno solo due scelte: evitare l’ostacolo e fingere di non vederlo oppure prendere il libretto delle istruzioni e concentrarsi (faticando esageratamente) per cercare di capire dov’è il bottone dell’accensione che, di solito, si trova esattamente sotto il loro pollice, ma questa è la soluzione meno in voga e tendenzialmente viene presa solo se obbligati dalle circostanze.

Tutto si sta trasformando in una perdita di tempo, cerchiamo di correre così velocemente da farci inghiottire da un flusso che tende a bloccare ogni nostro pensiero, fantasia, o sfogo, rendendoci nevrotici. 
Così facendo, persino degli apparecchi che, teoricamente, dovrebbero aiutarci ad evitare tutto questo divengono il nostro peggiore nemico ma, anche, la misura di noi stessi attraverso la quantità di denaro che spendiamo per possederli: quante persone, per esempio, si regalano un computer Mac senza avere la minima idea di come sfruttare appieno le sue potenzialità e quale dovrebbe essere, realmente, la sua funzione solo perché và di moda e “fa figo“?

venerdì 25 dicembre 2009

Dis(servizi) causa scioglimento calotta artica.




Non so perché ma ogni qualvolta mi capita di viaggiare con Trenitalia qualcosa di strano scatta in me facendomi venir voglia di scrivere un articoletto dedicato a questa magnifica compagnia ferroviaria.

Settanta minuti d’aspetto, per Frecciarossa, alla stazione di Bologna sabato scorso sono nulla a confronto dell’arrivo a Milano. Ovviamente, avevo perso la coincidenza (un’Eurostar) per andare a Genova. Per fortuna c’erano altri due treni poco dopo il mio arrivo a Milano: ho fatto una corsa (si fa per dire dato che si procedeva a passo da cerimonia funebre e più che camminare venivi spintonato e trascinato dagli altri utenti) per prendere il primo dei due che sarebbe dovuto risultare in partenza entro pochissimi minuti, era fermo nel binario con 45 minuti di ritardo, la fantastica scusa, spero, inventata dal personale è stata: “Non troviamo la motrice”… forse qualcuno deve essersela messa in tasca e portata a casa per sbaglio: dopotutto è talmente minuscola che perderla è all’ordine del giorno.

Prima di fiondarmi su un treno regionale, che fermava a Genova Principe e che ha fatto solo dieci minuti (accettabilissimi) di ritardo, ho tentato di chiedere al personale delle ferrovie come fare per il biglietto data la differenza abissale del prezzo da me pagato: si sono trasformati tutti magicamente in macchinisti (è la prima volta che mi capita). Ho chiesto ad un gruppo di cinque persone ferme a mangiare senza far nulla che si sono limitate a guardarmi senza rispondere. Alla fine ho trovato un capotreno che mi ha liquidata dicendomi: “Sali sul regionale perché l‘intercity non parte, oggi va così, non so dirti assolutamente nulla per il biglietto”.

Arrivata a Genova Principe ho chiesto al personale delle informazioni come fare per farmi rimborsare il biglietto non utilizzato. Mettiamo da parte la gentilezza, sempre poco di casa, e concentriamoci sulla competenza. I miei biglietti erano stati fatti on-line e la mia “amica” delle informazioni venendolo a sapere ha storto la bocca dicendo che per questo tipo di scelta non c’è tanta garanzia quanta quella data al cartaceo. Inoltre, il biglietto non era rimborsabile perché avrei dovuto (perdendo il treno) andare alla biglietteria di Milano (che è un “tantinello” lontana dai binari) e chiedere se potevano cambiarmelo prima che il treno che avevo perso partisse: operazione impossibile. In più, tanto per prendere in giro ulteriormente l’impiegata mi fa: “Non dovrei dirtelo ma se vuoi recuperare i soldi del biglietto devi scrivere che hai rinunciato al viaggio e che ti sei fermata a Milano utilizzando il portale delle ferrovie on-line nella sezione Rimborso”.

Ho controllato, tanto per scrupolo, se potevo richiedere il rimborso del biglietto ma è impossibile: il sito richiede il codice PNR del biglietto on-line e decide in automatico se la corsa è rimborsabile o meno e, la prima scelta, risulta tale solo nel caso l’utente lo abbia richiesto prima della partenza del treno interessato.

L’apoteosi è giunta ieri quando Trenitalia aveva garantito tutti i treni del pomeriggio sopprimendo, magicamente, quello diretto a Milano delle ore: 16.10.

Per non ritrovarmi a Milano la sera ho deciso di partire stamattina e, ovviamente, alle informazioni mi hanno detto di nuovo di richiedere il rimborso on-line, cosa che ho fatto quasi immediatamente.

Sorpresa: il sito internet non mi accetta il rimborso del treno che è stato soppresso e di quello che, ovviamente, ho perso a causa del primo mi trattiene il 20% come da norma di legge che, però, da quanto è stato pubblicizzato e da quello che mi era stato detto poco prima allo sportello non avrebbe dovuto esserci, in altre parole dovevano rimborsarmi l’intero viaggio. Cosicché ho deciso di mandare una lettera ai reclami e, ora, aspetto una risposta che dovrebbe arrivare entro 30 giorni, data in cui aggiornerò i risultati.

Un consiglio finale a tutti gli utenti che comprano biglietti on-line: se non siete sicuri di poter partire o sapete già in partenza che ci saranno dei problemi relativi a ritardi e coincidenze è meglio che optiate per il cartaceo.

martedì 15 dicembre 2009

Ha così poca importanza?




Un tempo, le materie umanistiche e quelle scientifiche erano una sola entità, inglobate l’una nell’altra, si completavano a vicenda.


Oggi, parlando con alcune studentesse universitarie che si occupano del ramo prettamente scientifico ho tristemente appreso come, invece, la divisione venga recepita in quanto netta.


Ho personalmente sempre pensato, studiando i grandi intellettuali passati e presenti, che un letterato non è mai solo tale ed uno scienziato a suo modo ha quel qualcosa di artistico e quell’amore per la lettura che ha il suo pari: senza di esso, senza quel pizzico di fantasia o di irrazionalità/razionalità non esisterebbe nessun tipo di scoperta in nessuno dei due campi.


Invece, ora, c’è questa esigenza da parte di chi studia la “materia” in sé di dividersi a priori dall’umanista giustificando il tutto attraverso l’uso di convenzioni e regole che, apparentemente, chi si occupa di materie letterarie non ha. Il sunto del discorso sarebbe: “noi del ramo scientifico siamo legati alla realtà materiale del mondo, voi del ramo umanistico vivete in un mondo tutto vostro, creato da voi che non è quello reale”. Come, allo stesso modo, gli altri dicono: “voi studiate delle materie aride, siete chiusi in convenzioni che domani cambieranno e tutto quel mondo che voi percepite come reale si sgretolerà”. Così, alla fine, i cosiddetti studenti-”scienziati” (una parola grossa) finiscono per tacciare gli umanisti di anarchia e di vivere male la propria vita facendosi troppe domande che mai avranno risposta, mentre questi ultimi tacciano, i primi, di ottusità.


La cosa più assurda che ho sentito è stata che la matematica non si può considerare una materia scientifica, in altre parole che la madre della scienza odierna non è tale proprio perché si mescola troppo con la filosofia.


Facendo così, però, si finirà per avere un distacco talmente grosso tra questi due rami del sapere finendo per creare degli operai della scienza che applicano regole senza crearne di nuove, senza ricercarne e artisti intellettuali impossibilitati a mettere in pratica la propria creatività perché troppo presi da problemi esistenziali che credono di avere ma che, in realtà, si creano e a trovare il modo più facile di diventare famosi senza fatica (perché, diciamo la verità, la maggior parte di studenti nell’ambito umanistico non ha molta voglia di fare e, spesso, tende a studiare a memoria le proprie materie come farebbe uno studente nell’ambito scientifico: per lo meno un punto in comune c’è, sono entrambi legati ad uno studio sterile e mnemonico che non concede nulla alla comprensione del testo ma è, semplicemente, funzionale ad un voto dato da insegnanti, molto spesso, non qualificati a dovere).


Nella società odierna le materie umanistiche vengono percepite come inutili ed esse stesse tendono a volersi travestire da scienze (basti vedere la semiotica generativa che cerca di ripercorrere un sentiero scientifico andando a interpretare dei dati che, però, non potranno mai esserlo). Non comprendiamo, così, quanto entrambi i rami, sebbene contrapposti, siano necessari all’essere umano: altrimenti perché esisterebbero i romanzi? I videogiochi? I film? E via dicendo… come faremmo a sopportare il peso di una società dove gli svaghi verrebbero considerati qualcosa di completamente avulso? L’uomo non ha forse bisogno, ogni tanto, di staccare e rilassarsi? Ha così poca importanza?

sabato 5 dicembre 2009

Ipotesi di decostruzione


Come avevo anticipato nel post precedente (dove si trova anche la spiegazione della nascita e del fine di questo progetto) allego la seconda ipotesi di sceneggiatura che ho scritto.
In questo caso, ho scelto di forzare un po' di più l'idea di base (fornita dalle persone che si trovano nel mio gruppo) tentando un approccio di decostruzione basato sul materiale presente all'interno dei cortometraggi che dobbiamo collegare tramite la Script Continuity.
 
 
IPOTESI DI SCENEGGIATURA 2

SCENA 1 - INTRODUZIONE
“Mi stai chiedendo cosa sia per me la sessualità?” la voce off di una donna domanda, mentre lo schermo nero inizia ad illuminarsi scoprendo a poco a poco il volto, in primo piano, della persona che sta parlando. Inizialmente guarda in alto alla sua destra, pensierosa, poi in macchina: “Non saprei risponderti, sinceramente. È qualcosa di naturale, semplice, immediato, probabilmente quello che chiamiamo istinto è ciò che più si avvicina ad una definizione del termine” (sorride impacciata).
“La telecamera ti dà fastidio?” chiede la voce di un uomo che, però, non possiamo vedere.
“Non proprio, solo, mi sento osservata … forse perché immagino … ciò che gli altri potrebbero pensare di questa intervista quando avranno modo di vederla”.
La donna abbassa gli occhi mentre l’uomo la rassicura: “Capisco. L’unico consiglio che posso darti è: chiudi gli occhi e lasciati andare, perché tutto ciò che diranno o penseranno riguardo alle tue parole sarà semplicemente dettato da pregiudizi e clichè”. La donna alza gli occhi nuovamente verso la telecamera, fissando, questa volta, un punto al di là di essa con aria interrogativa. L’uomo continua: “Anche tutte queste interviste, che si susseguiranno in alternanza alle nostre conversazioni, vedrai, saranno falsate”, e prosegue con tono ironico: “Non penserai davvero che una persona qualunque intercettata ed intervistata per strada possa dire la verità dopo pochi secondi?”. La donna sorride nuovamente con aria di complicità, le luci si abbassano.

ROLEPLAY: pudore, omosessualità, sadomasochismo

SCENA 2
“Avevo una famiglia terribilmente religiosa, non la sopportavo. Forse è questo che mi ha spinta a cercare di cancellare i miei alibi: avevo bisogno di credere quanto poco fosse razionale il sesso”.
“Spogliati” le chiede l’uomo. La donna sorride, si alza e si gira di spalle. Sfila la maglietta mostrando la propria schiena nuda, unica parte, ora, ripresa dalla telecamera.
“Hai mai pensato,” continua la donna immersa nei suoi pensieri “che ci plasmiamo da soli ancorandoci su delle impalcature che alla fine ci distaccano dalla nostra identità? Mi spiego meglio, guarda questi documentari, per esempio, cosa ci lasciano? Cosa ci trasmettono? Il tentativo vano di interpretare razionalmente un’azione di per sé pura e semplice, forse? L’uomo tende ad essere talmente calcolatore da sterilizzare persino il puro istinto della sessualità, ci autoannulliamo così”.
Lui la incalza: “Non è un caso che Freud abbia scritto un saggio chiamato Totem e Tabù. Non è nemmeno un caso dover confrontarci anche ora con questa tematica: spesso i blocchi psicologici inoculati dalla nostra società creano dei mostri senz‘anima”.

CONDIZIONAMENTI AMBIENTALI: chiesa, etnia, stupro

SCENA 3
“Mi stavo chiedendo, e questa domanda vuole ricollegarsi ai prossimi cortometraggi, come ti sentiresti se io decidessi di privarti di uno dei tuoi sensi?” chiede l’uomo.
La donna, ancora di schiena si infila nuovamente la maglietta e si gira sorridente, appoggia due dita sulle labbra, le abbassa. La telecamera si sofferma sulle sue mani. Lei risponde: “Quante volte abbiamo, tutti, chiuso gli occhi facendo autoerotismo, privandoci della vista, per immaginare qualcosa di sessuale? Fare l’amore al buio o, per gioco, bendati non è la stessa cosa? Anche la mancanza del tatto, non è molto diversa: questa privazione estemporanea incarna un giochino erotico senza direzione”.
“Come tu stessa hai detto prima, rendiamo razionale anche ciò che non dovrebbe esserlo”, conclude l’uomo mentre le luci si spengono ed in dissolvenza parte il prossimo gruppo di corti.

APERCEZIONI: webcam, il sesso per i ciechi, nudità

SCENA 4
“Mi chiedo perché mai il sesso sia visto in questo modo” esordisce la donna. “Quale modo?” chiede l’uomo. La donna guarda in basso i propri piedi scalzi e la telecamera segue il suo sguardo soffermandosi proprio su di essi.
“Tutti questi cortometraggi, tutto questo cercare di essere qualcosa che non siamo. È come se fosse stata fraintesa la differenza che intercorre tra sesso ed erotismo: qui tutti si riferiscono al secondo e mai del primo. Nessuno dice qualcosa come: è proprio bello rendere felice l’altra persona, farla sentire a suo agio, provare piacere nel farlo. Tutti esclamano: il sesso lo conosciamo, è banale per noi, quindi crediamo sia meglio, e più interessante nonché alla moda, cercare la diversità”; la donna, ora, prende dello smalto ed inizia a colorare le unghie dei piedi, continuando distrattamente: “Non si rendono conto, però, così di creare proprio loro questa diversità: non vedo cosa ci sia di strano nel vivere una sessualità non mediata da modelli fittizi”.

PASSO A DUE: cambismo, abitudine sessuale negli anziani, sessualità tra sconosciuti, confronto con "Comizi d'Amore" di Pasolini

SCENA 5
“Non siamo mai nati” esordisce la donna. L’uomo, ora, spunta da dietro la telecamera, si avvicina a lei, le poggia una mano sulla spalla, guarda verso la telecamera, poi si rivolge nuovamente verso l’altra persona “Cosa intendi con questo?”.
“Abbiamo parlato di tutto tranne di come siamo nati, è un argomento che idealmente lego più all’amore tra due persone che al sesso ma ci sono tanti altri tipi di variazioni e ramificazioni che partono da questo soggetto, le abbiamo dimenticate”.
“Se ci pensi bene, alla fin fine non abbiamo nemmeno parlato di te come avremmo dovuto fare inizialmente” dice l’uomo sorridendo ed accarezzando la testa della donna.
“È vero, ci siamo persi a criticare quello che dicevano gli altri, prendendoli un po’ troppo seriamente e cercando di creare un ordine, ma che ordine ci può essere in lavori tanto eterogenei?” chiede la donna abbassando gli occhi sconfitta.
“L’ordine è un po’ come il voler rendere il sesso qualcosa di razionale. Mi piace di più questo tipo di caos organizzato: accozzaglie di frammenti che lo stesso spettatore deve ricostruire soggettivamente a rischio di smarrire il significato iniziale che lo stesso regista voleva proporre. Un’opera data in pasto al pubblico non dev’essere per forza finalizzata e classificabile in un dogma”.

mercoledì 25 novembre 2009

Alle Termopili (script continuity o discontinuity?)


Ho passato la settimana a cercare di creare una sceneggiatura per la Script Continuity (per il famoso corso di laboratorio che sto seguendo e di cui ho parlato nel post precedente).
Il problema era partire dall’idea altrui costruendoci sopra qualcosa di più consistente. Le persone del mio gruppo, contro il mio parere, avevano pensato di fare un semplice video basato sull’utilizzo di parti del corpo. Mi spiego meglio, l’idea di partenza era nella prima parte far vedere il particolare di un volto femminile, poi con uno zoom indietro mostrare il viso interamente. La stessa cosa da farsi successivamente con la schiena di un uomo, le mani di una donna, i piedi di un uomo e dei genitali non ancora definiti per finire, poi, con sia lui che lei completamente nudi davanti alla telecamera. Per coronare il tutto avevano pensato che era intelligente utilizzare le registrazioni delle lezioni per il sonoro: evitava di dover scrivere una sceneggiatura (dato che nessuno voleva occuparsene).
Quello che ho contestato dell’idea è che risultava troppo statica: da un lato sembrava quelle famose ed orribili interviste del telegiornale in cui mostrano la foto della persona che parla in collegamento esterno, dall’altro continuava a balenarmi nella mente l’immagine di un laboratorio per la sezione dei cadaveri. Senza contare il problema dell’audio legato all’inconsistenza di una registrazione digitale di basso livello.
Così, per farmi piacere quest’idea, ho chiesto se qualcuno aveva in mente di collaborare ad una sceneggiatura: non ho ricevuto risposta, per cui sia per diletto e gioco che per necessità mentale e masochismo ne ho fatte un paio per conto mio.
Intanto ne posto una (quella che preferisco), l’altra è in attesa di essere “ricamata” meglio ma probabilmente nei prossimi giorni la aggiungerò nel blog.
I vari capitoli che dividono le scene della mia sceneggiatura sono una serie di documentari a tema creati dai miei colleghi di corso.

 
IPOTESI DI SCENEGGIATURA
Tutte le parti del corpo descritte sono “divise dal corpo”, come staccate dalle proprie estensioni. Il lavoro è ideato con l’intento di utilizzare la monocromia e, anche se non specificato, lo sfondo presente in ogni scena risulta nero.

 
SCENA 1 - INTRODUZIONE
Un volto, distaccato dal corpo che ruota su se stesso lentamente, (tramite l’ausilio di un pannello nero che si confonda con lo sfondo alle sue spalle), dal colore monocromatico rosa sfuma gradatamente, durante la scena, verso il rosso.
L’espressione del viso inizialmente rilassata, una volta compiuto il giro, ritorna alla posizione di partenza con uno sguardo stupito.
Nel frattempo sentiamo un audio meccanico, i rumori tipici che possiamo trovare da un fabbro in cui si producono suoni come quelli provocati dal ferro battuto.
Una voce off di un uomo con voce inizialmente frettolosa dice: “Si, è perfetta, proprio quello che desideravo. Il volto va benissimo ma siamo sicuri che possa funzionare?” le sue parole si fanno più lente e riflessive: “Come possiamo avere la certezza che nessuno si accorga della reale materia di cui è fatta questa donna?”
La voce di una donna incalza freddamente: “Secondo lei le persone hanno il tempo di cercare di comprendere chi hanno di fronte? L’unica cosa su cui dobbiamo puntare sono i dettagli: il colore degli occhi, la presenza di alcune rughe a sottolinearne l’umanità, delle unghie ben curate ma non perfette, questi sono elementi importanti, non di certo il suo modo d’esprimersi a parole”.
Un rumore secco in concomitanza con la chiusura delle luci segna lo stacco e l’introduzione del primo gruppo di cortometraggi.

ROLEPLAY - autoerotismo, omosessualità, sadomasochismo

SCENA 2
Lo schermo si presenta nero, si accende una luce posizionata centralmente e direttamente al di sopra dell’immagine che illumina una schiena. Questa gira su se stessa come il volto nella prima scena, dal colore rosso passa al monocromatico blu.
Due voci sincrone di un uomo e di una donna esordiscono: “Cerchiamo di nascondere la sostanza di cui siamo fatti dietro alle ideologie, ci aggrappiamo disperatamente a qualcosa in cui possiamo credere per poter sopravvivere, ci rendiamo aridi perché incapaci ormai di sognare. Ora, invece, guarda, osserva ciò di cui siamo stati capaci. La creazione di qualcosa d’altro da noi, eppure, così simile: siamo i suoi déi, siamo ciò in cui lui dovrà credere, ciò a cui abbiamo sempre aspirato ormai è compiuto. Ci siamo sostituiti a dio e questo per noi è più dolce di qualsiasi altra presa di coscienza”.

CONDIZIONAMENTI AMBIENTALI - chiesa, etnia, stupro

SCENA 3
Una dissolvenza in nero in entrata inizia a mostrarci una mano con dei fili che partono dall’estremità del polso fino a estendersi al di fuori dell’inquadratura. Un ticchettio continuo di orologio scandisce il tempo.
Un cubo di Rubik si trova accanto a questa che lo afferra. Dallo sfondo nero, alle spalle degli oggetti presentati, compare un’altra mano che, prendendo il cubo dal lato opposto della prima, inizia a districarlo seguendo il ticchettio di sottofondo. Il colore monocromatico in questa scena và dal blu al verde escludendo l’unico oggetto presentato con i suoi naturali colori che sarà, ovviamente, il cubo.
La voce off della stessa donna delle altre scene esordisce:“Non farci caso, non stanno mai ferme, hanno bisogno di testare le loro percezioni.”
L’uomo le chiede allora: “A cosa pensate sia dovuto?”
Risponde lei: “Non riusciamo a capire perché si sia sviluppata questa volontà, non sappiamo da dove l’abbiano dedotta: fili, chip, meccanismi informatici non ci hanno dato una risposta”.

APERCEZIONI: webcam, il sesso per i chiechi, nudità

SCENA 4
Il colore ora da verde diventa gradualmente giallo.
Un piede fermo, poggiato su un piedistallo (con gli stessi fili che partono dalla caviglia presentati nella scena delle mani) viene smaltato con un colore rosso scuro, con attenzione e lentezza, da una mano che indossa un guanto trasparente. Il rumore di un metronomo in crescendo e con ritmo sempre più incalzante scandisce la scena.
Una voce off di un’altra donna, concentrata e triste, dice: “Temo che il tempo possa logorarli, ci ho lavorato così tanto per poterli rendere perfetti e non penso lo siano tutt’ora. Più li osservo e li accarezzo più nella mia mente si fa concreta l’idea che possano rovinarsi: qualcuno potrebbe renderli irriconoscibili al proprio creatore. Se solo potessimo fermare il tempo allora, sì, potremmo considerarci invincibili”. Il piede inizia a prendere fuoco e la plastica di cui è fatto a sciogliersi. Il metronomo si ferma, la luce si spegne.

PASSO A DUE: scambismo, abitudine sessuale negli anziani, sessualità tra sconosciuti, confronto con "Comizi d'Amore" di Pasolini

SCENA CONCLUSIVA
La scena è filmata all’aperto, una piazza, mostra varie persone che chiacchierano e camminano. Visivamente ogni persona verrà resa con un colore monocromatico diverso mentre lo sfondo della piazza in scala di grigi.
Le voci off di un uomo ed una donna in sincrono, con sprezzo, concludono: “Guardali, sono come noi, identici. Persino i loro sguardi ci rispecchiano. Tante chiacchiere, progetti, creazioni per arrivare a confrontarci con vuoti elementi di plastica: non siamo più in grado di guardare noi stessi, abbiamo bisogno di concentrarci sull’alterità per sentirci apparentemente più completi e migliori”.

giovedì 19 novembre 2009

Progetto Comics di Script Continuity

Questo fumetto nasce da una mia idea di Script Continuity che il gruppo con cui collaboro (e che non mi sono scelta) ha giudicato inizialmente infattibile (così ho detto a tutti i miei amici dell'accademia di fumetto che sono dei semi dèi) e di conseguenza è stata accantonata.
Per gioco, però, l'ho portata avanti comunque inventandomi dal nulla questi personaggi che vi presenterò tra poco e la sceneggiatura che li accompagna.

Ovviamente il progetto è costruito per essere frammentato: ogni quattro scene dovrebbero essere introdotti dei cortometraggi di documentari, dove la sessualità teoricamente sarebbe la tematica centrale, creati dai miei colleghi di corso.

La Script Continuity, infatti, per chi non lo sapesse è proprio questo: cercare un collante, costruire un'impalcatura che tenga unito tutto il lavoro; in questo caso trovare un'idea che sia in grado di unire assieme cortometraggi il più disparati possibili facendo sì che l'intero filmato non ricada su se stesso implodendo.

Chiedo scusa se le immagini sono un tantino storte 



SCENA 1:


Il protagonista del fumetto, stilizzato in bianco e nero, arriva con passo tranquillo guardandosi perplesso il mantello che ha indosso e chiedendo alla moglie: “Non ti sembra che mi stia un tantino largo? Me l’hanno regalato i ragazzi del Dams”
La moglie con fare scioccato si protrae verso di lui portandosi una mano alla bocca e     rispondendo: “Vuoi andare in giro con quella mantella addosso? Ma sei serio? Vuoi farti vedere in giro vestito”?

Lui tristemente risponde: “Mi hanno detto che ormai l’amore ed il sesso non sono più dei     giochi e che dobbiamo capire quanto serio, io, debba essere… Così mi hanno detto: Bando     al pudore!”

“E ti hanno detto di vestirti?” risponde lei titubante.

Imperturbabile e convinto la rintuzza: “Certo: se non mi vesto, come faccio poi a     svestirmi?”

“…mmm…” sempre più incerta, lei, si gratta la testa.

Di sorpresa si accende la televisione posta sul tavolino di fronte alla coppia producendo i tipici suoni da disturbi di frequenza e dando l’idea che stia partendo un filmato. 

Tra il contrariato e lo stupido lui esclama: “Ecco, vedi? Parli del diavolo e spuntano i     damsiani!” Lei spaventata si nasconde dietro al mantello del marito dicendo: “Ho paura, di quello che     potrebbero fare, nascondimi”.

La televisione si fa via via più grande prendendo l’intero schermo e parte il cortometraggio in entrata.




OPZIONI VIDEO:


Tutti i cortometraggi saranno inseriti all’interno di una cornice fumettistica (una finta televisione) sempre presente come se i vari documentari fossero dei quadri.
All’interno di questa cornice bianca, durante i corti, ci camminerà un animaletto come per esempio una pecorella stilizzata che si metterà a mangiare dei fiori che compariranno in giro oppure saltellerà, camminerà, etc. 


SCENA 2:



Una vocina triste di donna si sente in entrata mentre lo schermo si rimpicciolisce riportandoci alla scena fumettistica: “Mi aspettavo qualcosa di più fatiscente”.

Tra il voglioso ed il giocoso il marito le risponde: “Vuoi che mi rimetto nudo?”.

La scena si dissolve mostrando la donnina che legge un libro più grande di lei intitolato: “How to be a good wife in 50 steps” dal quale spuntano una parte del naso e gli occhi increduli. Al di sopra di lei si forma una nuvoletta sulla quale c’è la sua figura crocifissa.

La scena torna alla normalità. La coppia è di nuovo davanti allo schermo: la moglie seduta a terra legge. Al marito spuntano dei denti da vampiro mentre propone: “Pensandoci bene, mi è venuta un’idea: ti andrebbe di bendarmi?” 

La donna distratta risponde: “…mmm… va bene, se proprio insisti”. 
Chiude il libro, estrae un foulard dalla tasca, benda il marito ed esce di scena lasciandolo solo. “C'è nessuno? … Lo sapevo, mi ha fregato di nuovo!” esclama contrariato l'omino. 
Si sposta arrancando in avanti e finisce addosso al televisore che cadendo, si accende. Parte il secondo gruppo dei corti.



SCENA 3:

La donnina torna in scena con aria ebete. 
Lui le chiede: “”Ma dov'eri finita?”.
Lei gli risponde mentre un aureola inizia a comparire sulla sua testa: “Sono andata a confessarmi per te”.
Lui talmente scioccato da far saltare il cappello in aria da solo esclama: “Ma cosa ti hanno fatto?”. 

L'aureola sulla testa di lei inizia a trasformarsi in una torta di compleanno: “Ho incontrato per strada il signor Osho e mi sono unita alla sua community”.

L'omino un po' confuso chiede alla moglie: “Ma tu non eri cristiana?”. Mentre l'aureola/torta si trasforma in un palloncino che si sta sgonfiando lei gli fa notare con vocina stridula: “Beh, tu non eri ebreo a tua detta, tempo fa? Mica ce l'hai circonciso!”

Il marito scioccato si immagina la lama di una gogna scendere, alla cui estremità superiore è applicato un televisore da cui inizia a partire il terzo gruppo di cortometraggi




SCENA 4:



“Sono un tantino confusa... ma il tema non doveva essere la sessualità?” Esordisce la donnina mentre uccellini e stelline le fluttuano al di sopra della testa.

Il marito fingendo preoccupazione le consiglia: “Forse è meglio se vai a riposarti un po', ti aspetto qui”.

La donnina esce di scena, lui aspetta un pochino rigirandosi i pollici e guardandosi i piedi poi quatto quatto va verso una porta, si china tentando di guardare dal buco della serratura, che si ingrandisce a dismisura, e dal quale si possono vedere delle gambe femminili in primo piano.
L'immagine precedente scompare mostrando la donnina al frigorifero mentre sceglie che cosa mangiare: “Cosa posso prendermi? Ho proprio fame... Chissà se mio marito ha conosciuto Ezio...” 

L'omino soddisfatto decide di entrare nella stanza.

Trova un uomo seduto su una sedia che si aggiusta le calze e si nasconde sconvolto. Il cappello gli scivola a terra e dice con voce preoccupata: “Dov'è mia moglie? Dove l'hai nascosta? Cosa ne hai fatto?”

Da un video applicato sulla porta partono gli ultimi cortometraggi.

domenica 15 novembre 2009

Sex, Lies and Videotapes





Lo so, sono completamente assorbita dal corso di laboratorio audiovisivo dell’università per cui in questo periodo finisco sempre per parlare di quello.

Sta volta ho voglia di analizzare le tematiche desunte da queste lezioni. Mi spiego meglio: l’idea è di creare più cortometraggi (documentari-inchiesta) dedicati allo stesso tema, scelto dal professore, e cioè la sessualità, per poi unirli tutti assieme creando un solo film di circa un’ora con un’idea collante (un vero e proprio inferno considerando che ho scelto di occuparmi proprio di quest’ultima e sono affiancata da altre sette persone con cui non ho mai avuto modo di lavorare).

Torniamo, però, a noi. I temi prescelti sono dei più disparati: sadomasochismo, sesso virtuale in webcam, autoerotismo, concezione della nudità, la parabola discendente del desiderio negli anziani (ma perché dobbiamo per forza pensare che le persone di una certa età diventino asessuate?), diversa concezione sessuale tra musulmani ed ebrei (lascio desumere a voi a chi è venuto in mente questo tema), concezione della chiesa cristiana del sesso, omosessualità, scambisti, il sesso dal punto di vista di un cieco (perché pensano sia interessante metterlo a confronto con la nostra visione dell’immagine, la cosa più degradante è che vogliono fare l’intervista in un sexy-shop).

Detto questo, che cosa manca?

Ho la sensazione che per far scalpore ci si dimentichi delle cose belle del sesso, delle cose semplici che lo costituiscono e che oramai i miei “colleghi” percepiscono come banali: abbiamo dimenticato che l’atto in sé porta ad una conseguenza importante, la nostra nascita.

Non abbiamo compreso la differenza tra sessualità ed erotismo mescolandoli assieme e senza comprendere come il primo sia legato ad un’azione, un’istintività animale, ed il secondo ad un piacere puramente umano e razionale legato ad un gioco sensuale.

È come se il bombardamento mediatico che oggi subiamo più che disincantarci e renderci indifferenti ci abbia fatto diventare dei voyeur, amanti dei segreti nascosti dietro una serratura, e dimentichi della bellezza di un atto semplice ed istintivo: non riusciamo più a viverlo come qualcosa di naturale ma lo schematizziamo in sovrastrutture fittizie perché siamo ormai incapaci di vivere realmente la conoscenza propria e dell’altro.

Mi raccomando, però, l’ordine è “guardare, mostrarlo, cercare di farne parlare gli altri ma non dire che noi stessi siamo quei voyeur”.

mercoledì 11 novembre 2009

"Il reale mi dà l'asma"




Viviamo in una società di arrivisti incapaci di collaborare seriamente ad un progetto. Esistono solo tre categorie di persone, escludendo le eccezioni e chi è un po’ allucinatamente deviato verso la metafisica, e cioè: chi si crede di poter comandare, chi preferisce fingere di sottostare ma in realtà delega e chi si lascia trascinare dagli eventi incurante del fatto che domani avrà disimparato a sopravvivere.

Sto facendo una bellissima esperienza con i gruppi in laboratorio: chi vuole fare, perché interessato al progetto o semplicemente perché l’ha preso seriamente, soccombe sotto i colpi di chi se ne frega altamente perché lo giudica qualcosa di inutile e solo importante ai fini di un voto. 

Se ci comportiamo così al lavoro cosa succede? Nasce la società italiana, ovviamente fatta di gente stressata da un lato perché crede di avere tutto sulle sue spalle e dall’altro perché cerca di ingegnarsi per fare il meno possibile e delegare.

La parola magica dell’Italia è proprio Delegare.

Laviamocene le mani prima di cadere in un progetto giudicato da noi inutile, impossibile, intrattabile, perché i sogni, il sapere aiutare chi ci sta attorno al di là del suo essere o meno malato, l’impegnarsi a fondo per qualcosa che non sia per il nostro esclusivo consumo è qualcosa di aberrante, è una perdita del nostro preziosissimo tempo che sta per scadere sotto i colpi d’ascia scagliati dalle lancette dell’orologio.

Come pretendere quindi di costituire una società fatta di persone che collaborano o comunque sanno vivere in modo costruttivo assieme se per primi siamo noi a giudicarlo impossibile?

lunedì 26 ottobre 2009

(Dis)educazione scolastica: telefonini cellulari? Quarto Potere




Parlando con un’amica è emerso un problema scolastico che da sempre esiste ma negli ultimi anni, grazie alle nuove tecnologie a portata di mano, si è esteso ed intensificato: i ragazzi che copiano durante i compiti in classe.

Questa ragazza mi ha raccontato che la sua sorellina minore, vedendo che una sua compagna si fa spedire via sms dalla propria madre, insegnante lei stessa, gli esercizi svolti, ha iniziato a credere che sua madre sia cattiva perché non fa la medesima cosa.

Ricordo quando anch’io mi meravigliavo da piccola dei miei compagni con i bigliettini e parlandone a casa mi veniva detto dai miei stessi genitori di farmi furba e imparare dagli altri ragazzi ad usare questi trucchi per fare bella figura; negli anni questa mentalità tra i genitori persiste e si è estesa fino ad arrivare a proteggere il proprio figlio trovando scuse del tipo: “Beh così mi prende i voti alti col minimo sforzo” oppure “Poverino ha così tante cose da fare, nuoto, pallavolo, calcio, che proprio non ha tempo per studiare, bisogna aiutarlo in qualche modo”, e via dicendo.

Il trucco degli insegnanti di ritirare i cellulari ormai è un sogno lontano anni luce considerando il fatto che, i ragazzi, si preparano un minimo di quattro telefonini a testa per essere certi della “copertura”. 

Ricordo che al mio esame di maturità, messi in condizioni di incapacità totale nell’utilizzo di cellulare e del classico passaparola, i ragazzi avevano escogitato il metodo di andare in bagno, mettere dei bigliettini con le soluzioni del test di matematica attaccate dietro al water e andarli a recuperare a rotazione: il problema è che sono stati scoperti da un giovane professore da poco laureato e più sveglio di loro che, avendo notato il via vai (tre persone una dopo l‘altra erano andate al bagno), si è insospettito, è andato a controllare e ha trovato il nascondiglio: c’è stata una lavata di capo per tutti, il presidente della commissione ha fatto qualche minaccia di ritiro compiti ma alla fine tutto è svanito in una bolla di sapone.

Arriviamo all’università, convinti che questo “chiudere un occhio” scompaia perché comunque i professori dovrebbero essere più attenti ed i ragazzi più preparati poiché, teoricamente, più interessanti alle materie, ci giriamo durante un elaborato di italiano e scopriamo che il nostro vicino di banco ha incollato degli interi temi di carattere generale, inerenti gli autori su cui l’esame doveva vertere, scaricati da internet sul proprio vocabolario, e copia di pari passo, per poi prendere pure una votazione bella alta.

Ci ritroviamo così a chiederci se i professori facciano finta di nulla per comodità, pigrizia, insofferenza e, perché no, anche un po’ di menefreghismo per la propria materia d’insegnamento, oppure non se ne accorgano perché talmente candidi da non poter concepire che i ragazzi stiano copiando. Ho alcuni dubbi sulla seconda ipotesi.

Mi chiedo a questo punto se le persone che si laureano, lavorano e applicano ciò che hanno appreso copiando (e, quindi, non conoscono) siano realmente competenti e preparati per l’esercizio della propria mansione e, soprattutto, mi domando perché crediamo ancora che la scuola italiana sia una delle migliori al mondo, constatato che siamo i primi a distruggerne le basi dalle fondamenta. 

Quanto ci vuole a scoprire i furbetti di turno? Sono forse troppi e quindi è meglio lasciar correre la cosa?

martedì 13 ottobre 2009

Vuoto a perdere




Ho appena iniziato a seguire all’università un seminario obbligatorio denominato: Laboratorio Audiovisivo. Ci è stato chiesto di creare un cortometraggio a più voci sul tema della sessualità nella nostra società attuale, in altri termini come questa viene percepita ed elaborata attualmente.

Ognuno di noi studenti è libero di elaborare un’idea, un concept, un soggetto da poter sviluppare assieme ad altri, il mio primo pensiero su questo progetto è stato “Ci scanneremo” perché purtroppo lo spirito di squadra si fa da parte dando largo spazio ad un sistema basato sul tentativo di emergere che poco si accorda con un lavoro di gruppo.

Veniamo, però, alla scelta della tematica: la sessualità.

Mi è capitato tra le mani un libro di Martha C. Nussbaum dove tutto questo viene affrontato alla luce del disgusto e della vergogna sociale applicate alla legge. Leggendolo mi ha trasmesso un’immagine di tutti noi, in questa società, nascosti dietro a delle maschere mentre additiamo un uomo (o una donna che sia) privo di questo nascondiglio, nudo di fronte al nostro cospetto mentre dall’alto del nostro schermo lo giudichiamo colpevole di avere un’intimità. Quell’uomo ci spaventa, quella debolezza apparente che mostra ci sconcerta e ci disgusta.

Ci giudichiamo diversi dagli animali grazie alla nostra razionalità cercando in tutti i modi di cancellare ciò che in realtà fa parte di noi in modo intrinseco ed incancellabile: l’irrazionalità, l’azione, l’atto sessuale. Tentiamo di razionalizzarlo, di concepirlo, di inscriverlo in qualcosa che non è possibile generalizzare o rendere credibile o, persino, accettabile agli occhi degli altri.

Quante volte vi è capitato di pensare o sentire dire: “E’ disgustoso, che schifo” guardando magari un film in cui delle immagini richiamano, ricordano, nascondono al loro interno qualcosa di prettamente sessuale ma non esplicitato? Ci disgusta, inconsciamente, senza renderci conto quanto in realtà sia vicino a noi: è troppo difficile scardinare tutto questo rendendolo umano, o meglio comprendendo che l’essere umano è anche istinto animale?

domenica 11 ottobre 2009

Sanità Patologica

Dicono che la sanità italiana sia la migliore al mondo, proviamo ad enumerarne i meriti. Gli anziani, categoria da noi preponderante ed in crescita saranno il nostro ago della bilancia.

Un nonno finisce in ospedale per qualche attacco o qualcosa di rotto, viene operato e, ovviamente, come tutti sanno per facilitarne la ripresa viene seguito da un fisioterapista interno all’ospedale (per cinque interminabili minuti) finché non viene dimesso.

Se i parenti sono stati svegli e hanno fatto richiesta per l’RSA attraverso l’ospedale appena il nonno è stato ricoverato c’è la possibilità che questi venga spostato in una di queste strutture “random” (perché il malato non può scegliere dove finire), altrimenti viene mandato a casa per direttissima senza alcuna possibilità di proroga.

Queste strutture sono sempre ultra tecnologiche (i campanelli di chiamata sono tutti rotti), pulite (avete il coraggio di usare il bagno? Sempre che ci sia), seguite nei minimi particolari a partire dal personale che amorevolmente cura i pazienti (la maggior parte stranieri che non conoscono l’italiano e, di conseguenza, non sono in grado di avere uno scambio umano con il degente).

Se l’anziano è fortunato ed è capitato in una struttura un tantino più seria viene seguito tre volte a settimana per dieci minuti di orologio da un fisioterapista competente: anche i muri sanno che con così poco tempo dedicato è letteralmente impossibile avere una ripresa, per cui i famigliari (sempre che questo pover’uomo ne abbia) sono obbligati a prendere un fisioterapista a pagamento oppure improvvisarvisi loro stessi tali (personalmente a me è capitata la seconda opzione con due diversi nonni). 

Vogliamo anche parlare della pulizia dedicata alla persona o sono stata abbastanza esplicita per rendere l’idea della mancanza di organizzazione in cui naviga la nostra beneamata sanità? Un esempio sarebbe quante volte al giorno cambiano il pannolino alle persone inferme che navigano (mi dispiace dirlo) nei loro bisogni per ore. Senza contare tutte le malattie che si possono prendere dagli altri pazienti quali broncopolmonite ed infezioni varie lasciate correre liberamente in giro senza controllo.
Calcolando che parlo di situazioni presenti al nord (e già comunque scandalose), possiamo solo immaginare come al sud i degenti vengano seguiti amorevolmente.

Qui in Italia, però, la sanità è la migliore al mondo, vero?

sabato 3 ottobre 2009

Videodrome o la cura Ludovico? No, soltanto profezie pasoliniane su fascismo mediatico e massificazione inconscia




C’è chi è drogato di videogiochi, come la sottoscritta, c’è chi usa le droghe classiche (tentando di fumare persino le bustine del thè o ideandosi  un sistema per creare l’oppio dai semi di quei poveri papaveri inquinati colti dal ciglio della strada), c’è chi è drogato di stress e c’è chi si fa di massificazione. Se devo dire la verità, quello che più mi preoccupa è l’ultimo gruppo citato: “gli uomini senza qualità”.

Senza l’uso passivo e destabilizzante del mezzo televisivo queste persone non riescono a vivere, non riescono a concentrarsi durante lo studio, non possono nemmeno addormentarsi (probabilmente, hanno bisogno di essere cullati dalla voce suadente di Bruno Vespa) e non sono in grado di trovare una soluzione se, per caso, un guasto incorre nel loro bene amato apparecchio per la sopravvivenza.

Non ha importanza il tipo di programma che guardano, è il solo atto di trovarsi davanti al televisore che li fa stare bene, li rilassa, li accompagna dolcemente e gli dà la grandiosa possibilità di poter bloccare completamente il cervello assorbendo passivamente materiale privo di sostanza e disperdendolo subito dopo nell’aria oppure di parlare con gli amici, e quindi di socializzare, attraverso l’uso inconsulto di materiali inconsistenti quali: chi sta con chi e dove, chi sta facendo che cosa, nell’esatto qual modo in cui dovrebbe essere…

Non è esattamente l’atto singolo di una persona che, magari, ha lavorato tutto il giorno, è stanca e ha bisogno di “staccare” un po’ dal tram tram che critico, bensì l’azione reiterata e cercata di un pubblico massificato incapace e desideroso di immergersi nel “fumo televisivo” a cui assisto ogni giorno osservando alcuni gruppi di ragazzi al di là di una teca immaginaria in cui li colloco: loro vivono nell’ospedale psichiatrico mentre io sono il ricercatore che prende appunti, oppure io sono il malato che di nascosto si beve un po’ di “Latte Più corretto mescalina” e loro l’equipe di medici che tenta invano di riportarmi ad una realtà che non voglio tollerare.

Ho bisogno di contenuti, li cerco e li desidero ma solo i libri, e pochissimi eletti, ultimamente sono in grado di trasmettermeli: è una sofferenza pensare che la maggior parte di persone sia ferma, bloccata, congelata in una posizione stallo in cui si culla senza neanche accorgersene. 

La televisione in questo diventa un paradigma di ciò verso cui non voglio andare: l’automatizzazione dell’uomo; ed i libri il superamento di tutto questo. Già Pasolini (e mi dispiace parlare di lui perché ultimamente troppa gente sta distorcendo volontariamente e a proprio uso e consumo le sue teorie estratte dai vari scritti che ci ha lasciato) aveva intuito cosa questo medium era in grado di produrre se utilizzato in modo commerciale a partire dall’utilizzo stesso della lingua italiana, impoverita dal linguaggio televisivo di tutti i suoi orpelli e fioriture: oggi persino i giornalisti non padroneggiano la propria lingua madre (all’estero siamo famosi per la nostra risaputa e completa ignoranza nella lingua inglese; nel caso in cui io mi rivolga ad un italiano medio dicendogli: “how do you do”, mi risponde: “fine, thanks” oppure “sorry, I didn’t catch” e prima ti guarda aggrottando la fronte poi spalanca gli occhi e apre la bocca nel tentativo di formare una sillaba che ti faccia capire che non ha compreso ma poi a sorpresa dice “ah  si, ok, ok” che non c’entra nulla). 

La cosa più sconcertante è leggere un tema di un universitario e scoprire che: non c’è coerenza, i tempi verbali cambiano ad ogni frase oppure mancano del tutto, non esiste punteggiatura (forse si improvvisano dei novelli Joyce), manca completamente la conoscenza della sintassi e della logica italiana e l’ortografia è da decifrare (escludendo tutte le miriadi di errori di scrittura). 

Possiamo dare la colpa agli insegnanti ma tanto, alla fine, è una malattia congenita che sta dilagando nella società del nostro Paese: ne soffrono praticamente tutti e non fanno nulla per uscirne perché non sono interessati a migliorare le proprie basi intellettuali/culturali ma semplicemente a sopravvivere assuefacendosi di materiale televisivo.

sabato 26 settembre 2009

Bella di giorno? No, mediocri melisse P.





È davvero sconvolgente scoprire che esiste la prostituzione nelle nostre scuole e che tutti cadono dalle nuvole nel sentirlo o leggerlo nelle notizie del giorno.
Praticamente da sempre le ragazzine si fanno pagare per dei favori sessuali la differenza tra oggi e ieri è che ora non si nascondono più perché fa chic.


Per tutti quelli che sono preoccupati per questo fenomeno, a detta dei giornali, in crescita voglio rassicurarvi dicendovi che iniziano già dalle medie a dare il contentino ai compagni di scuola per comprarsi delle cosine in più e che (udite udite) non si vergognano perché è una cosa del tutto normale, basta che mamma e papà non lo sappiano e se, per caso, lo scoprissero o chiudono un occhio o si auto convincono che non è possibile che il loro angioletto si prostituisca per un cellulare nuovo o per una cannetta (non voglio esagerare: potrei provocare delle convulsioni a chi ha le bistecche sugli occhi).


La cosa più sorprendente è che la colpa la fanno cadere sui costumi americani quando, in realtà, ciò che i ragazzini fanno è indipendente da ciò che succede oltreoceano.
Al giorno d’oggi nella nostra società, a casa nostra, in Italia (tutto creato da noi, il “berlusconismo” è una nostra invenzione, non americana: abbiate il coraggio di vantarvi delle vostre scelte) il problema del sesso è all’ordine del giorno: è ancora un tabù, in famiglia è difficile parlarne perché per i genitori è un argomento del quale vergognarsi, a scuola l’educazione sessuale è una presa in giro perché come a casa anche qui gli adulti hanno una certa ritrosia nel avere uno scambio di opinioni equo con i ragazzi; altro fattore piuttosto brutto è che molti maschietti non vogliono assolutamente avere a che fare con una ragazza vergine perché giudicata troppo impegnativa, di tutta risposta le femminucce non danno più importanza alla persona con cui vanno a letto (basta andarci e togliersi il pensiero), se poi le paghiamo pure si sentono logicamente furbe perché hanno avuto un tornaconto monetario. Senza contare come la società sia attualmente impostata sulla competizione, che sia sessuale o meno ha poca importanza: le ragazze si mettono a fare a gara con le proprie coetanee per vedere chi è più brava a dare/ricevere cosa, se poi si divertono ancora meglio (e, su, ammettiamolo che per loro come per noi è qualcosa di piacevole). 

Li conoscono i rischi, ne sono coscienti ma credono di essere e vogliono fingersi più grandi della loro età come la maggior parte di bambini/adolescenti.


Ora, concentriamoci sul “fattore denaro”: viviamo in un era consumistica dove, per esempio, i nostri genitori fanno debiti per comprarsi un’auto di lusso oppure gli stessi insegnano ai figli che bisogna andare a studiare in un’università di stampo scientifico perché è l’unica possibilità di avere tanti tanti soldi che nella loro equazione suona così:

Università scientifica = Lavoro assicurato + Tanti soldini => Vivere senza pensieri + Lavorare poco = Vita Ideale

Chissà perché gli iscritti nelle università di stampo umanistico sono in sensibile calo, mi domando. Chissà perché i ragazzi danno così tanta importanza ai soldi da pensare che la prostituzione (da loro chiamata “amicizia” pagante) sia una delle soluzioni più facili, veloci e furbe in commercio attualmente.


Non venitemi a dire che hanno imparato tutto a scuola oppure è solo colpa dell’educazione in famiglia o solo della società esterna: facciamo parte tutti della stessa catena che si ripete all’infinito da genitore a figlio, senza contare che anche noi adulti lo facciamo.


Lolita (non la ninfetta di Nabokov) esisteva un tempo e continua ad esistere, non è una novità: non fingiamo che lo sia.



giovedì 24 settembre 2009

“Fahrenheit 451” di Ray Bradbury


English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/fahrenheit-451-by-ray-bradbury.html

Science Fiction, romanzo di fantascienza: ho avuto una discussione con un professore perché non condividevamo la stessa idea di definizione per questo meraviglioso mondo. Lui lo vedeva come indissolubilmente legato ai robot, alla Asimov per chi lo conosce, mentre io lo concepisco come la creazione di un mondo alternativo al nostro che non obbligatoriamente deve rispondere a tecnologie avanzate, il da me compianto Ballard per esempio.

La discussione si basava in specifico su un libro che mi è piaciuto particolarmente “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury.

Tempo fa avevo tentato di parlare anche con una ragazza che conosco riguardo a questo libro ma la risposta alla mia domanda (come aveva lo aveva trovato, come le sembrava) è stata deludente: “Preferisco il film di Truffaut”.

Il fatto è che non mi interessava sapere se le era piaciuto o meno ma cosa ne pensava: come l’aveva trovato in specifico, cosa poteva averla colpita, se le aveva creato qualche meccanismo intrinseco di analogie orbitanti nella sua ontologia mentale.

Il problema è che, attualmente,  tutti tendono a prediligere risposte prive di contenuto ed evasive: se solo qualcuno tentasse di fare un passettino in più della normale tendenza alla superficialità cercando di arrancare ad un grado più alto verso la comprensione, in questo caso di un testo, le persone si bloccano e le orecchie iniziano a fumare.
Ragionare non è alla moda, uniformarsi è l’ordine.

Lo stesso libro che ho menzionato poco fa si basa più o meno su questo concetto estendendolo ad un volere più alto rappresentato da uno Stato totalitario che tenta di soffocare la nascita di qualsiasi forma di pensiero autonomo, perché giudicato troppo pericoloso ed ingestibile. Per questa forma di politica il nemico è rappresentato dai Libri (la mia linfa vitale), unici mezzi che danno la possibilità al fruitore di interagire in modo tale da ragionare e comprendere ciò che sta leggendo e (anche, perché no?) “immaginare”.

In questo mondo fantascientifico il lavoro dei pompieri non è più quello di spegnere incendi, ma di appiccarli bruciando i libri.

Ciò che mi ha colpita di primo acchito iniziando a leggere “Fahrenheit” è stato lo stile di scrittura da me battezzato “cinematografico”: un modo asciutto e chiaro di scrivere con un largo utilizzo di aggettivi in grado di evocare delle immagini dando la sensazione di vedere un susseguirsi di sequenze filmiche e non di parole lette. Questa caratteristica si nota anche nel racconto, si legge molto facilmente, in maniera fluida, nascondendo nel sottobosco del non detto un mondo a parte: la bellezza di una ragazzina che attrae un vigile del fuoco per le cose strane che dice, lette in libri che lo zio le ha raccontato, la sua scomparsa e ciò che questa provoca nell’animo dell’uomo portandolo a comprendere come abbia bisogno di leggere e, quindi, di poter pensare autonomamente; i problemi di una coppia in cui la moglie vive per la sola televisione, simbolo dell’ozio, e non riesce a comprendere il proprio marito ed il suo bisogno di evadere da quella prigione creata appositamente per rendere gli uomini delle pedine consenzienti perché a lei piace, perché non pensare equivale ad essere felici, cioè ad evitare ogni sorta di sentimento autonomo; la paura e la ritrosia di chi legge di nascosto ma non ha il coraggio di ribellarsi contro lo stato attuale delle cose rimanendo in disparte; e chi aspetta il momento giusto per tornare da un esilio forzato per poter insegnare di nuovo a vivere una vita reale fatta anche di pensiero perché uno stato totalitario non potrà durare in eterno.

sabato 19 settembre 2009

Il trionfo della borghesia

    English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/moral-decorum-pathological-sublimation.html


L’automobile: il nostro status simbol. Cosa faremmo senza di lei? Come potremmo sopravvivere in mancanza di questo mezzo di trasporto così vitale? Quanto ci mancherebbero la sua vicinanza, la sua comprensione, il suo rumore sconsolato, il tentare di spaccarci le corna sfrecciando nel bel mezzo di un paese mentre una vecchina attraversa la strada e un bambino si butta animatamente su una palla che insegue la vecchietta? Sicuramente la prima sensazione sarebbe panico, seguita da sudori freddi, vampate, solitudine e depressione.

Di certo non accompagneremmo più nostro figlio a scuola perché troppo distante: 300metri dopotutto sono un’infinità, durante questo terribile e sferrato percorso potremmo anche inciamparci o prenderci una tegola in testa. Fare la spesa in una condizione del genere non se ne parlerebbe: meglio vivere di pane ed acqua (per fortuna il fornaio è sotto casa) oppure, piuttosto, decidere di convertirsi all’uso di internet e della carta di credito sebbene siate da sempre contrari a questi mezzi inconsulti.

Andare in palestra e al solarium, o in piscina, assolutamente no, o si, o no, o si… e qui, nasce un’illuminazione, perché la necessità di buttare giù chili per essere più aitanti e quindi, dal vostro punto di vista, accettati maggiormente nella società e da voi stessi vi porta a scoprire che esistono anche altri mezzi di trasporto oltre all’auto: l’autobus, la metro, lo scooter, l’ostica bicicletta e, qualcosa che non avreste mai immaginato poter contemplare, le vostre gambe.
Piano piano, obbligati da tutto questo, vi accorgete che non è poi così male: vi sentite anche più leggeri, più in forma dopo un giretto in bici o una passeggiatina. Scompare lo stress da traffico: quei clacson, quella fretta di levarsi di mezzo, quella ricerca infinita di un parcheggio, svaniscono lasciando posto ad una sensazione eterea di pace (provocata, probabilmente, anche dall’assunzione di Prozac, dovuto alla depressione iniziale causata dalla mancanza dell’auto, di cui nel frattempo vi siete assuefatti).

Vi sentirete come Heidi circondata dalle caprette e saltellerete lungo Via Indipendenza a Bologna gioendo di questa libertà appena conosciuta e ritrovandovi lo stesso traffico automobilistico sul marciapiede: pedoni infernali che camminano come se fossero in processione, gente che guarda da tutte le parti e che esce dai negozi urtandovi e voi vorrete solo scappare ma sarà impossibile: non ci saranno vie di fuga se non rintanarvi in qualche negozio o nel vostro appartamento che oramai sarà troppo lontano. Tenterete invano di saltare su un autobus troppo pieno (o la gente troppo sulla porta) per riuscire ad entrarci (viva le sardine), vi guarderete attorno spaesati e penserete alla vostra bella auto: lì almeno eravate seduti ad imprecare ma nessun passante vi calpestava i piedi o vi urlava nelle orecchie.

Vi sentirete morire a causa di un leggero attacco di panico, inizierete a correre disperati verso l'unico punto in cui, vi sembra, passi dell'ossigeno, vi accascerete a terra senza forze completamente sommersi dal traffico cittadino e, mentre tenterete di respirare quel solo boccone d'aria, la gente attirata dal vostro malessere si accalcherà attorno a voi per poter vedere, capire, impicciarsi... privi di respiro vi risveglierete nel vostro letto, fradici, maledicendo la sera prima in cui avete avuto la fantastica idea di prendervi un acido per rilassarvi.

Come cambiare Hard Disk ad un portatile


Ieri ho ricominciato a scrivere sul blog in seguito ad una piccola assenza dovuta all’addio che l’Hard Disk (HD) del mio computer portatile (marca DELL, Inspiron 1720) mi ha dato.

È stato un duro colpo per me, soprattutto perché era il weekend e ho perso tutti i dati relativi a dei giochi di ruolo che utilizzo on-line quali World of Warcraft e Aion (in particolare le maledettissime patch di World of Warcraft che non ho ancora finito di aggiornare perché sono infinitamente lunghe causa anche la mia “connessione tartaruga“).

Detto questo appena ho potuto sono corsa a comprare un nuovo HD, ho avuto qualche problemino per inserire l’OS (Sistema Operativo, ovvero Windows Vista) ma alla fine ho capito, con un piccolo aiutino (grazie Gabri). 

Così ho pensato bene di scrivere questo post spiegando come fare a cambiare da soli un HD senza ricorrere all’assistenza.

Premetto che l’HD non muore di punto in bianco togliendoci la possibilità di accendere il computer (questo è solo l’ultimo stadio della malattia) prima inizia per un lungo periodo ad avvisarci con dei messaggi di errore del sistema, dei riavvii inaspettati, delle schermate blu il cui errore segnalato risulta essere “ntfs.sys“ (cioè, appartenente proprio all‘HD), dei blocchi di windows e così via finché un giorno non lo riaccenderete più. 

Inoltre, sarete felici di sapere che, comunque, i dati dell’HD deceduto possono essere recuperati in un secondo momento (a meno ché il vostro computer non sia saltato in aria in mille pezzettini).

Prima di cambiare HD è importante scoprire se è SATA oppure ATA: non è difficile, cacciavite alla mano smontate la cassettina sotto il vostro pc all’interno del quale si trova l’HD e lo leggete direttamente nell’etichetta appiccicata sopra (nel caso di un DELL la parte da smontare è quella con la scritta “strike zone”). Se avete due HD, come nel mio caso, e non sapete quale dei due vada o meno potete tranquillamente metterli da parte (potrete recuperare i dati in un secondo momento) e metterne uno solo al loro posto.

Marca consigliata per l’HD nuovo è la WD (Western Digital), fate attenzione che l’HD sia di 2,5’’ e non di 3,5’’ perché quest’ultimo è per computer fissi.

In ogni caso, per sicurezza, portatevi sempre dietro l’HD e chiedete al rivenditore se il ricambio che avete preso in mano è compatibile.

Nel caso di un computer DELL, ammesso che se ne intendano, vi diranno che dovrete smontare anche la piastra che ricopre il vecchio HD mettendola in quello nuovo e spostando anche, ovviamente, l’adattatore 
del collegamento tra HD e pc (si sfila facilmente).

Una volta montato il nuovo HD al posto di quello vecchio munitevi di CD del sistema operativo, CD dei driver e, sempre nel caso DELL, CD di Media Direct.


1. Accendere il Computer inserendo il CD di Media Direct. Questo si avvierà, vi chiederà se volete fare la partizione avvisandovi che tutti i dati precedentemente inseriti andranno persi, dategli l’ok per andare avanti. 

La partizione, per chi non lo sapesse, è la divisione dei dischi del computer, faccio un esempio pratico: se prendete un HD di 500gb lo potete dividere in 250gb su c:/, 100gb su d:/ e 150gb su e:/, non è 
difficile ve lo chiede direttamente il computer quanti giga volete mettere su ogni disco, il mio consiglio è di mettere la maggior parte dei giga sul disco base cioè su c:/. Se, invece, preferite avere tutta la memoria su un solo disco potete scegliere di mettere tutto su c:/.

Fatta la partizione lo stesso programma vi chiede di inserire il CD dell’OS e poi di dare l’invio. Se il programma di installazione dell’OS non dovesse partire, spegnete pure il computer e aspettate il momento in cui potete cliccare F12 (durante il caricamento dell’accensione). Vi si aprirà una pagina con scritto: HDD, CD/DVD, Bios Setup e altro. Evidenziate, utilizzando le freccette della tastiera, la scritta CD/DVD e fate invio, partirà così finalmente il cd. 

2. Aspettate un attimo, scegliete la lingua (l’italiano c’è tra le opzioni, non abbiate timore), mandate avanti, cliccate su “installa” e poi…

3. Quando vi chiede di scegliere dove inserire il sistema operativo, cliccate su Driver, cambiate CD, inserite quello dei Driver, fateglieli caricare, dopodichè rimettete nuovamente il CD dell’OS scegliete la partizione di c:/ e mandate avanti.

4. Ora inizierà ad installare tutto il sistema operativo, ci vuole una mezz’oretta circa, il computer si riavvierà da solo e tanti auguri, ce l’avete fatta 

5. Chi ha anche Media Direct si ricordi di infilare nuovamente il cd del programma alla fine di tutto per concludere la procedura.


Se dimenticate di inserire i Driver allo step 3 il computer all’avvio del sistema operativo non aprirà Windows impallandosi sul suo caricamento. 

Riavviando si aprirà la famosissima pagina di: “avvia windows normalmente, avvia w. con comandi, avvia con o senza rete…” se scegliendo “Avvia Windows con comandi prompt” nel caricamento si blocca alla scritta “crcdisk.sys”  quello è il vostro errore e vi sta segnalando proprio il fatto che avete dimenticato di inserire i driver, per cui dovrete ricominciare la procedura da capo rifacendo la partizione.