domenica 17 gennaio 2010

Cani sciolti e padroni al guinzaglio




Avevo otto anni e passeggiavo col mio bel cagnone al guinzaglio, ricordo la paura paralizzante nel vedere un pastore tedesco venirmi addosso ed il terrore quando il mio cane si liberò dal collare attaccandolo per difendermi ed avendone la meglio, urlai ma nessuno intervenne.
Vivevo in un paesino di campagna dove mai nessuno, anche tutt’ora, ha imparato a non lasciare i propri cani liberi per strada. Oggi esiste il microchip sottocutaneo e tutti i proprietari, persino di cavalli, devono, per legge, farlo mettere al proprio animale. Questo, teoricamente, dovrebbe diminuire la libertà dei proprietari ma in realtà è inutile: basta uscire dalla propria regione (a volte anche solo dalla provincia) di residenza perché il segnale non venga captato (questo significa che se, malauguratamente perdiamo il cane lontano da casa possiamo scordarci di ritrovarlo).
A parte questa digressione su scomparse/abbandoni degli animali, il vero fulcro della discussione vorrebbe essere l’uso della museruola. Mi rendo conto che molti proprietari di cani siano contrari all’uso di questo mezzo inconsulto, molto spesso perché pensano che il loro cane sia buono come il pane ma se la stazza dell’animale si aggira sulla ventina di chilogrammi, ci farei un pensierino.
Non penso sia un fattore del pedigree dei cani che li rende buoni o cattivi ma di quello dei padroni: ogni animale, come ogni essere vivente, ha un proprio carattere e la sua educazione và plasmata a seconda di questo ma non significa che nasca buono o cattivo solo che in un certo caso bisogna avere la mano ferma mentre, magari, in un altro serve semplicemente dolcezza e calma.
Molte persone, però, vedono il proprio cane come segno del loro posto nella società, non è più “l’amico dell’uomo” ma lo strumento per distinguersi: non imparano a conoscerlo e così, un bel giorno, quell’animale non si fa più riconoscere rivoltandosi, a volte contro estranei ed altre contro il proprio padrone.
Tempo fa mi fece impressione vedere un bellissimo e dolcissimo San Bernardo (un tantino grosso come cucciolo) cambiare espressione degli occhi il momento stesso in cui la mano del suo padrone si avvicinava alla sua testa, mi sembrò di notare un lampo d’odio verso quell’uomo e così gli chiesi se mai questo cagnone aveva morso qualcuno: certo che lo aveva fatto, aveva morso proprio lui alla mano (probabilmente come avvertimento, altrimenti se non se la sarebbe cavata con qualche punto).
Uno dei miei cani, per esempio, odia i bambini a morte, le hanno fatto così tanti dispetti (anche sotto gli occhi dei genitori che attoniti mi guardavano ogni qualvolta chiedevo loro cortesemente di allontanarsi dal recinto perché il cane mordeva) con petardi e cattiverie varie che mai, assolutamente, la farei avvicinare ad un bambino e sto, comunque, attenta anche quando passeggiamo per strada (sempre e rigorosamente al guinzaglio), perché sarebbe capace di morderlo senza timore (in realtà lo farei anch’io nei suoi panni, ma questo non significa che debba lasciarla libera).

sabato 9 gennaio 2010

"A Kind of Blue"



English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/blue-movie-by-derek-jarman.html


“Abituato a credere nell’immagine,
in un'idea assoluta di valore,
il mondo ha dimenticato l’imperativo della sostanza,
non ti farai scultura né immagine,
benché tu sappia che il tuo compito consista
nel riempire la pagina vuota,
dal profondo del tuo cuore,
prega di essere liberato dall’immagine”.


La maggior parte di persone, riferendosi ad un film, crea delle categorie in cui porlo. La classifica che tendenzialmente aborro è quella del “non l’ho capito, ergo non mi piace” dove praticamente vengono inseriti puntualmente i registi che più amo.

Questo discorso nasce da una mia necessità oppure, potrei dire, piacere nel parlare di un film, al di là di tutti questi incasellamenti inutili, usandolo come trampolino di lancio verso una conversazione meno fatua.

Un film, personalmente, lo considero bello il momento in cui riesce a lasciarmi un segno, a produrre in me delle sensazioni, degli stimoli: non ha importanza se questi siano o meno piacevoli. Inoltre, trovo che la cosa più bella e più interessante sia farsi trascinare dal film: lasciarsi attraversare sorvolando i fattori tecnici o di comprensione, semplicemente guardarlo.

Ricordo il bisogno, non accontentato, di mettere in pausa “Non è un paese per vecchi” dei Coen a causa della tensione che mi trasmetteva, oppure la nausea psicologica creata da alcune scene di “Antichrist” di Lars Von Trier, o, ancora, il rapimento che provo ogni qualvolta mi fermo a contemplare un film di Tarkovsky, o la paura creata in noi da “Shining” di Kubrick nel quale l’immagine ed il montaggio ci preparano a ciò che vedremo ma la colonna sonora ci fa sprofondare in un silenzioso terrore.

A questo proposito potrei erigere a baluardo di questa tesi “Blue” di Derek Jarman. Questo lungometraggio è completamente privo di immagini, davanti allo spettatore si presenta solamente con uno schermo blu, sinonimo di inizio e fine di un programma, accompagnato da delle voci, dei suoni e dei canti: tutto ciò che può “vedere” un cieco.

Il regista ci racconta il proprio percorso di declino a causa della contrazione del virus HIV (più comunemente chiamato AIDS). Seguire ad occhi chiusi questa voce che parla di sé, attraverso piccoli ritagli di memoria, che ci accompagna attraverso un sentiero di cecità ed, in seguito, verso un sospiro di morte, è struggente, trasmette una sensazione di impotenza e tristezza ed allo stesso tempo d’infinità. Il film s’incarna attraverso il colore Blu, luogo di contrapposizioni, similitudini ed introspezione. 

L’immagine stessa viene negata perché “è una prigione dell’anima, la tua eredità, la tua educazione, i tuoi giudizi ed aspirazioni, le tue qualità, il tuo universo psicologico”, lasciandoci in un lacunoso oceano di vuoto e di possibilità illimitata.