mercoledì 30 dicembre 2009

Short Circuit




Credevo di vivere quasi nel 2010, l’era in cui le tecnologie avrebbero dovuto essere il nostro pane quotidiano, il tempo in cui tutti avremmo potuto approcciarci alle nuove innovazioni con facilità.
Mi guardo in giro, spaesata…

Una giovane ragazza, che conosco, di circa vent’anni, si avvicina ad una delle postazioni computer con le quali dovremo lavorare durante la lezione universitaria che sta per cominciare. Guarda lo schermo del pc e decide di spostarsi una fila più avanti. Le chiedo come mai ha cambiato idea cosicché lei mi risponde: “il computer non funziona“, le dico che è solo spento ma lei non tenta nemmeno di accenderlo, cambia posto ed è contenta.

Questo è solo uno dei tanti esempi che ho avuto modo di notare nel corso degli anni. Siamo tutti convinti che noi giovani accettiamo supinamente tutte le tecnologie e ci confrontiamo con esse più facilmente degli anziani ma non ne sono del tutto convinta. Penso sia, piuttosto, una predisposizione dell’individuo in sé: Michelangelo Antonioni non era un giovincello eppure adorava e cercava, confrontandovisi, le nuove frontiere delle tecnologie cinematografiche con lo stesso gusto che avrebbe un bambino a giocare con la neve.

Forse, il problema non sono le tecnologie ma la difficoltà nel comprenderle, mi spiego meglio: oggi la nostra società ci insegna a cercare l’immediatezza, non abbiamo più tempo da perdere nel cercare di capire come funziona qualcosa, abbiamo bisogno di avere a che fare con cose e situazioni di veloce comprensione altrimenti cadiamo vittime del tempo e dell’oblio del pensiero. 

Per questo ogni volta che la maggior parte di persone, giovani o anziani che siano, (e credetemi, sono più di quelle che voi possiate immaginare), si devono avvicinare a qualche nuova invenzione tecnologica hanno solo due scelte: evitare l’ostacolo e fingere di non vederlo oppure prendere il libretto delle istruzioni e concentrarsi (faticando esageratamente) per cercare di capire dov’è il bottone dell’accensione che, di solito, si trova esattamente sotto il loro pollice, ma questa è la soluzione meno in voga e tendenzialmente viene presa solo se obbligati dalle circostanze.

Tutto si sta trasformando in una perdita di tempo, cerchiamo di correre così velocemente da farci inghiottire da un flusso che tende a bloccare ogni nostro pensiero, fantasia, o sfogo, rendendoci nevrotici. 
Così facendo, persino degli apparecchi che, teoricamente, dovrebbero aiutarci ad evitare tutto questo divengono il nostro peggiore nemico ma, anche, la misura di noi stessi attraverso la quantità di denaro che spendiamo per possederli: quante persone, per esempio, si regalano un computer Mac senza avere la minima idea di come sfruttare appieno le sue potenzialità e quale dovrebbe essere, realmente, la sua funzione solo perché và di moda e “fa figo“?

venerdì 25 dicembre 2009

Dis(servizi) causa scioglimento calotta artica.




Non so perché ma ogni qualvolta mi capita di viaggiare con Trenitalia qualcosa di strano scatta in me facendomi venir voglia di scrivere un articoletto dedicato a questa magnifica compagnia ferroviaria.

Settanta minuti d’aspetto, per Frecciarossa, alla stazione di Bologna sabato scorso sono nulla a confronto dell’arrivo a Milano. Ovviamente, avevo perso la coincidenza (un’Eurostar) per andare a Genova. Per fortuna c’erano altri due treni poco dopo il mio arrivo a Milano: ho fatto una corsa (si fa per dire dato che si procedeva a passo da cerimonia funebre e più che camminare venivi spintonato e trascinato dagli altri utenti) per prendere il primo dei due che sarebbe dovuto risultare in partenza entro pochissimi minuti, era fermo nel binario con 45 minuti di ritardo, la fantastica scusa, spero, inventata dal personale è stata: “Non troviamo la motrice”… forse qualcuno deve essersela messa in tasca e portata a casa per sbaglio: dopotutto è talmente minuscola che perderla è all’ordine del giorno.

Prima di fiondarmi su un treno regionale, che fermava a Genova Principe e che ha fatto solo dieci minuti (accettabilissimi) di ritardo, ho tentato di chiedere al personale delle ferrovie come fare per il biglietto data la differenza abissale del prezzo da me pagato: si sono trasformati tutti magicamente in macchinisti (è la prima volta che mi capita). Ho chiesto ad un gruppo di cinque persone ferme a mangiare senza far nulla che si sono limitate a guardarmi senza rispondere. Alla fine ho trovato un capotreno che mi ha liquidata dicendomi: “Sali sul regionale perché l‘intercity non parte, oggi va così, non so dirti assolutamente nulla per il biglietto”.

Arrivata a Genova Principe ho chiesto al personale delle informazioni come fare per farmi rimborsare il biglietto non utilizzato. Mettiamo da parte la gentilezza, sempre poco di casa, e concentriamoci sulla competenza. I miei biglietti erano stati fatti on-line e la mia “amica” delle informazioni venendolo a sapere ha storto la bocca dicendo che per questo tipo di scelta non c’è tanta garanzia quanta quella data al cartaceo. Inoltre, il biglietto non era rimborsabile perché avrei dovuto (perdendo il treno) andare alla biglietteria di Milano (che è un “tantinello” lontana dai binari) e chiedere se potevano cambiarmelo prima che il treno che avevo perso partisse: operazione impossibile. In più, tanto per prendere in giro ulteriormente l’impiegata mi fa: “Non dovrei dirtelo ma se vuoi recuperare i soldi del biglietto devi scrivere che hai rinunciato al viaggio e che ti sei fermata a Milano utilizzando il portale delle ferrovie on-line nella sezione Rimborso”.

Ho controllato, tanto per scrupolo, se potevo richiedere il rimborso del biglietto ma è impossibile: il sito richiede il codice PNR del biglietto on-line e decide in automatico se la corsa è rimborsabile o meno e, la prima scelta, risulta tale solo nel caso l’utente lo abbia richiesto prima della partenza del treno interessato.

L’apoteosi è giunta ieri quando Trenitalia aveva garantito tutti i treni del pomeriggio sopprimendo, magicamente, quello diretto a Milano delle ore: 16.10.

Per non ritrovarmi a Milano la sera ho deciso di partire stamattina e, ovviamente, alle informazioni mi hanno detto di nuovo di richiedere il rimborso on-line, cosa che ho fatto quasi immediatamente.

Sorpresa: il sito internet non mi accetta il rimborso del treno che è stato soppresso e di quello che, ovviamente, ho perso a causa del primo mi trattiene il 20% come da norma di legge che, però, da quanto è stato pubblicizzato e da quello che mi era stato detto poco prima allo sportello non avrebbe dovuto esserci, in altre parole dovevano rimborsarmi l’intero viaggio. Cosicché ho deciso di mandare una lettera ai reclami e, ora, aspetto una risposta che dovrebbe arrivare entro 30 giorni, data in cui aggiornerò i risultati.

Un consiglio finale a tutti gli utenti che comprano biglietti on-line: se non siete sicuri di poter partire o sapete già in partenza che ci saranno dei problemi relativi a ritardi e coincidenze è meglio che optiate per il cartaceo.

martedì 15 dicembre 2009

Ha così poca importanza?




Un tempo, le materie umanistiche e quelle scientifiche erano una sola entità, inglobate l’una nell’altra, si completavano a vicenda.


Oggi, parlando con alcune studentesse universitarie che si occupano del ramo prettamente scientifico ho tristemente appreso come, invece, la divisione venga recepita in quanto netta.


Ho personalmente sempre pensato, studiando i grandi intellettuali passati e presenti, che un letterato non è mai solo tale ed uno scienziato a suo modo ha quel qualcosa di artistico e quell’amore per la lettura che ha il suo pari: senza di esso, senza quel pizzico di fantasia o di irrazionalità/razionalità non esisterebbe nessun tipo di scoperta in nessuno dei due campi.


Invece, ora, c’è questa esigenza da parte di chi studia la “materia” in sé di dividersi a priori dall’umanista giustificando il tutto attraverso l’uso di convenzioni e regole che, apparentemente, chi si occupa di materie letterarie non ha. Il sunto del discorso sarebbe: “noi del ramo scientifico siamo legati alla realtà materiale del mondo, voi del ramo umanistico vivete in un mondo tutto vostro, creato da voi che non è quello reale”. Come, allo stesso modo, gli altri dicono: “voi studiate delle materie aride, siete chiusi in convenzioni che domani cambieranno e tutto quel mondo che voi percepite come reale si sgretolerà”. Così, alla fine, i cosiddetti studenti-”scienziati” (una parola grossa) finiscono per tacciare gli umanisti di anarchia e di vivere male la propria vita facendosi troppe domande che mai avranno risposta, mentre questi ultimi tacciano, i primi, di ottusità.


La cosa più assurda che ho sentito è stata che la matematica non si può considerare una materia scientifica, in altre parole che la madre della scienza odierna non è tale proprio perché si mescola troppo con la filosofia.


Facendo così, però, si finirà per avere un distacco talmente grosso tra questi due rami del sapere finendo per creare degli operai della scienza che applicano regole senza crearne di nuove, senza ricercarne e artisti intellettuali impossibilitati a mettere in pratica la propria creatività perché troppo presi da problemi esistenziali che credono di avere ma che, in realtà, si creano e a trovare il modo più facile di diventare famosi senza fatica (perché, diciamo la verità, la maggior parte di studenti nell’ambito umanistico non ha molta voglia di fare e, spesso, tende a studiare a memoria le proprie materie come farebbe uno studente nell’ambito scientifico: per lo meno un punto in comune c’è, sono entrambi legati ad uno studio sterile e mnemonico che non concede nulla alla comprensione del testo ma è, semplicemente, funzionale ad un voto dato da insegnanti, molto spesso, non qualificati a dovere).


Nella società odierna le materie umanistiche vengono percepite come inutili ed esse stesse tendono a volersi travestire da scienze (basti vedere la semiotica generativa che cerca di ripercorrere un sentiero scientifico andando a interpretare dei dati che, però, non potranno mai esserlo). Non comprendiamo, così, quanto entrambi i rami, sebbene contrapposti, siano necessari all’essere umano: altrimenti perché esisterebbero i romanzi? I videogiochi? I film? E via dicendo… come faremmo a sopportare il peso di una società dove gli svaghi verrebbero considerati qualcosa di completamente avulso? L’uomo non ha forse bisogno, ogni tanto, di staccare e rilassarsi? Ha così poca importanza?

sabato 5 dicembre 2009

Ipotesi di decostruzione


Come avevo anticipato nel post precedente (dove si trova anche la spiegazione della nascita e del fine di questo progetto) allego la seconda ipotesi di sceneggiatura che ho scritto.
In questo caso, ho scelto di forzare un po' di più l'idea di base (fornita dalle persone che si trovano nel mio gruppo) tentando un approccio di decostruzione basato sul materiale presente all'interno dei cortometraggi che dobbiamo collegare tramite la Script Continuity.
 
 
IPOTESI DI SCENEGGIATURA 2

SCENA 1 - INTRODUZIONE
“Mi stai chiedendo cosa sia per me la sessualità?” la voce off di una donna domanda, mentre lo schermo nero inizia ad illuminarsi scoprendo a poco a poco il volto, in primo piano, della persona che sta parlando. Inizialmente guarda in alto alla sua destra, pensierosa, poi in macchina: “Non saprei risponderti, sinceramente. È qualcosa di naturale, semplice, immediato, probabilmente quello che chiamiamo istinto è ciò che più si avvicina ad una definizione del termine” (sorride impacciata).
“La telecamera ti dà fastidio?” chiede la voce di un uomo che, però, non possiamo vedere.
“Non proprio, solo, mi sento osservata … forse perché immagino … ciò che gli altri potrebbero pensare di questa intervista quando avranno modo di vederla”.
La donna abbassa gli occhi mentre l’uomo la rassicura: “Capisco. L’unico consiglio che posso darti è: chiudi gli occhi e lasciati andare, perché tutto ciò che diranno o penseranno riguardo alle tue parole sarà semplicemente dettato da pregiudizi e clichè”. La donna alza gli occhi nuovamente verso la telecamera, fissando, questa volta, un punto al di là di essa con aria interrogativa. L’uomo continua: “Anche tutte queste interviste, che si susseguiranno in alternanza alle nostre conversazioni, vedrai, saranno falsate”, e prosegue con tono ironico: “Non penserai davvero che una persona qualunque intercettata ed intervistata per strada possa dire la verità dopo pochi secondi?”. La donna sorride nuovamente con aria di complicità, le luci si abbassano.

ROLEPLAY: pudore, omosessualità, sadomasochismo

SCENA 2
“Avevo una famiglia terribilmente religiosa, non la sopportavo. Forse è questo che mi ha spinta a cercare di cancellare i miei alibi: avevo bisogno di credere quanto poco fosse razionale il sesso”.
“Spogliati” le chiede l’uomo. La donna sorride, si alza e si gira di spalle. Sfila la maglietta mostrando la propria schiena nuda, unica parte, ora, ripresa dalla telecamera.
“Hai mai pensato,” continua la donna immersa nei suoi pensieri “che ci plasmiamo da soli ancorandoci su delle impalcature che alla fine ci distaccano dalla nostra identità? Mi spiego meglio, guarda questi documentari, per esempio, cosa ci lasciano? Cosa ci trasmettono? Il tentativo vano di interpretare razionalmente un’azione di per sé pura e semplice, forse? L’uomo tende ad essere talmente calcolatore da sterilizzare persino il puro istinto della sessualità, ci autoannulliamo così”.
Lui la incalza: “Non è un caso che Freud abbia scritto un saggio chiamato Totem e Tabù. Non è nemmeno un caso dover confrontarci anche ora con questa tematica: spesso i blocchi psicologici inoculati dalla nostra società creano dei mostri senz‘anima”.

CONDIZIONAMENTI AMBIENTALI: chiesa, etnia, stupro

SCENA 3
“Mi stavo chiedendo, e questa domanda vuole ricollegarsi ai prossimi cortometraggi, come ti sentiresti se io decidessi di privarti di uno dei tuoi sensi?” chiede l’uomo.
La donna, ancora di schiena si infila nuovamente la maglietta e si gira sorridente, appoggia due dita sulle labbra, le abbassa. La telecamera si sofferma sulle sue mani. Lei risponde: “Quante volte abbiamo, tutti, chiuso gli occhi facendo autoerotismo, privandoci della vista, per immaginare qualcosa di sessuale? Fare l’amore al buio o, per gioco, bendati non è la stessa cosa? Anche la mancanza del tatto, non è molto diversa: questa privazione estemporanea incarna un giochino erotico senza direzione”.
“Come tu stessa hai detto prima, rendiamo razionale anche ciò che non dovrebbe esserlo”, conclude l’uomo mentre le luci si spengono ed in dissolvenza parte il prossimo gruppo di corti.

APERCEZIONI: webcam, il sesso per i ciechi, nudità

SCENA 4
“Mi chiedo perché mai il sesso sia visto in questo modo” esordisce la donna. “Quale modo?” chiede l’uomo. La donna guarda in basso i propri piedi scalzi e la telecamera segue il suo sguardo soffermandosi proprio su di essi.
“Tutti questi cortometraggi, tutto questo cercare di essere qualcosa che non siamo. È come se fosse stata fraintesa la differenza che intercorre tra sesso ed erotismo: qui tutti si riferiscono al secondo e mai del primo. Nessuno dice qualcosa come: è proprio bello rendere felice l’altra persona, farla sentire a suo agio, provare piacere nel farlo. Tutti esclamano: il sesso lo conosciamo, è banale per noi, quindi crediamo sia meglio, e più interessante nonché alla moda, cercare la diversità”; la donna, ora, prende dello smalto ed inizia a colorare le unghie dei piedi, continuando distrattamente: “Non si rendono conto, però, così di creare proprio loro questa diversità: non vedo cosa ci sia di strano nel vivere una sessualità non mediata da modelli fittizi”.

PASSO A DUE: cambismo, abitudine sessuale negli anziani, sessualità tra sconosciuti, confronto con "Comizi d'Amore" di Pasolini

SCENA 5
“Non siamo mai nati” esordisce la donna. L’uomo, ora, spunta da dietro la telecamera, si avvicina a lei, le poggia una mano sulla spalla, guarda verso la telecamera, poi si rivolge nuovamente verso l’altra persona “Cosa intendi con questo?”.
“Abbiamo parlato di tutto tranne di come siamo nati, è un argomento che idealmente lego più all’amore tra due persone che al sesso ma ci sono tanti altri tipi di variazioni e ramificazioni che partono da questo soggetto, le abbiamo dimenticate”.
“Se ci pensi bene, alla fin fine non abbiamo nemmeno parlato di te come avremmo dovuto fare inizialmente” dice l’uomo sorridendo ed accarezzando la testa della donna.
“È vero, ci siamo persi a criticare quello che dicevano gli altri, prendendoli un po’ troppo seriamente e cercando di creare un ordine, ma che ordine ci può essere in lavori tanto eterogenei?” chiede la donna abbassando gli occhi sconfitta.
“L’ordine è un po’ come il voler rendere il sesso qualcosa di razionale. Mi piace di più questo tipo di caos organizzato: accozzaglie di frammenti che lo stesso spettatore deve ricostruire soggettivamente a rischio di smarrire il significato iniziale che lo stesso regista voleva proporre. Un’opera data in pasto al pubblico non dev’essere per forza finalizzata e classificabile in un dogma”.