domenica 26 dicembre 2010

Vizi privati, pubbliche virtù


Collegio universitario Santa Dorotea
via Irnerio, 30 - Bologna
Scatto coperto da Copyright: Anakuklosis

È quasi il 2011 ed in Italia esiste ancora il mito della famiglia: molti hanno cercato di distruggerlo ma esso continua a persistere irridendo i pochi miscredenti che si battono affinché una realtà che non vuole essere accettata venga a galla.

Apro le notizie sul sito www.ansa.it proprio in questo momento, scorro la pagina e leggo: «“Sono riuscito ad uccidere mia figlia?” Arrestato dopo averla accoltellata» pare sia accaduto a causa della relazione che la ragazza aveva intrapreso con un uomo sposato.
Di storie del genere se ne trova almeno una al giorno pubblicata nelle news, spesso nemmeno raccontata al telegiornale, ed ormai nessuno più le ascolta: cadono nel dimenticatoio di un'immagine collettiva nella quale si pensa sia solamente un'eccezione alla regola della buona famiglia borghese.

Ho iniziato a pensare di scrivere un articolo dedicato a questo argomento perché poco tempo fa, parlando con una studentessa universitaria di Scienze della Formazione, si era imbastito un dialogo che tristemente ho lasciato decadere vedendo l'impermeabilità della ragazza alle mie parole: lei sosteneva che la maggior parte di violenze perpetrate a danno dei bambini avvengono per mano di persone estranee, io, al contrario, ho semplicemente ribadito la grossa responsabilità che viene attribuita alle famiglie oppure agli amici, in ogni caso persone vicine e conosciute.

Mi è stato risposto di andare in qualche associazione di recupero dedicata a casi di violenza e che avevo assolutamente torto, così il discorso è decaduto: troppo da spiegare, troppa chiusura da parte del mio interlocutore e mancanza di propensione, da parte mia, a perdere del tempo a mostrare dati e ricerche inerenti la questione.
Basta andare su google e digitare “violenze in famiglia” per trovare per esempio un articolo dedicato alla giornata contro le stesse (istituita il 29 gennaio 2010) in cui viene scritto (cito testualmente):

Secondo un'indagine dell'Associazione matrimonialisti italiani, il 70% degli stupri avviene tra le mura di casa, e solo il 6% è opera di estranei. Soltanto il 18% delle vittime considera un reato la violenza in famiglia, fisica o psicologica”.
Mettendo da parte la non troppo affidabile valenza delle percentuali a causa di risapute motivazioni (molte violenze non vengono denunciate) è alquanto sconvolgente come sia evidente che le mura di casa risultano le più pericolose ma noi non vogliamo ammetterlo.

Come mai cerchiamo di sotterrare nel nostro inconscio questa verità? La famiglia in Italia, come ho già detto, è intoccabile. Potremmo dare la colpa di tutto questo al perbenismo di un certo tipo di Chiesa e a quanto essa sia radicata nella nostra cultura media ma, al giorno d'oggi, non credo sia una giustificazione sufficiente. Ho il dubbio che il perché di tutto ciò risieda in quel 18% di vittime che non considera questo tipo di violenza un reato: un sottile filo divide la consapevolezza di ciò che accade dal timore di ammettere l'evidenza. Abbiamo tutti paura di pensare che la possibilità di essere feriti sia talmente vicina a noi da poterla toccare: ne siamo talmente attoniti che, spesso, mentiamo essendo più facile incolpare un estraneo che, quindi, non conosciamo per il male che ci circonda.

Come ammettere sia con noi stessi che con gli altri che qualcuno a cui vogliamo bene commette su di noi un certo tipo di violenza? Come smettere di pensare che sia colpa nostra ciò che sta accadendo, che siamo noi a cercare i guai?
Non è di certo facile: la violenza in famiglia è uno degli argomenti più delicati di cui ci si può occupare e tentare di aiutare le vittime lo è ancora di più.

Penso, però, che una possibile soluzione si possa trovare nel cambiamento di atteggiamento che dovremmo avere tutti nei confronti di queste situazioni. Una maggiore sensibilizzazione dell'opinione pubblica ed un tentativo maggiore di far comprendere sia la gravità sia la portata di tali situazioni aiuterebbe anche le vittime a farsi avanti più facilmente ed a lasciarsi aiutare: superato l'ostacolo dell'idea di nucleo famigliare intoccabile e sacro risulterebbe più semplice denunciare violenze sia fisiche che psicologiche oppure notarle più facilmente così da poter aiutare la persona, che magari è nostra amica, a trovare una soluzione o ad ammettere il problema.

Apriamo un po' gli occhi e guardiamoci attorno invece che lamentarci di quanto siamo soli, di quanto la società se ne lavi le mani e incolpare, magari, gente estranea puntando sull'atavica paura de “l'uomo nero” o, per usare altri termini, di ciò che non si conosce.

mercoledì 22 dicembre 2010

Manovre di (di)Istruzione


Come avevo accennato nel post precedente ho pensato di cercare di fare un po' di luce nel marasma dell'incomprensione creata dalla Riforma Gelmini, oramai divenuta realtà dopo la riconferma del Governo Berlusconi.

Manovre di (di)Istruzione
via Zamboni, 38 - Bologna
dicembre 2010
Scatto e Copyright di Anakuklosis
Molti ragazzi che frequentano normalmente l'università poco hanno capito dei disordini: ciò che ritengono più importante è poter andare a lezione senza dover cambiare sede poiché il dipartimento è occupato. Personalmente, non faccio parte della fascia di persone che manifesta la propria indignazione poiché mi manca tempo materiale per aderire ma comprendo quanto ci sia, in ogni caso, bisogno di gente (anche quei non frequentanti “delinquenti” criticati da Berlusconi) che si batta per i propri ed altrui diritti.

Il punto più importante e che maggiormente ha influenzato i disordini è la modalità di scelta inerente la qualità delle università in base al quale viene presa la decisione se dargli o meno degli incentivi. Quest'anno, infatti, secondo la lista annuale stilata dalla “QS TopUniversities” (visitabile all'indirizzo:http://www.topuniversities.com/university-rankings/world-university-rankings/2010/results) prima in classifica è Cambridge, seguita a ruota da Harvard e Yale, mentre le università italiane si trovano agli ultimi posti: prima tra tutte Bologna al numero 176 (http://www.topuniversities.com/university/61/university-of-bologna). Questo tipo di controllo qualità si basa su vari punti che vengono sottolineati anche all'interno della Riforma pensata dalla Gelmini andando a mettere in pericolo il lavoro stesso dei ricercatori. All'estero, infatti, il sistema universitario è costruito in modo differente da quello italiano, basandosi maggiormente su meritocrazia, collaborazione e, allo stesso tempo, competizione. Il problema basilare, di conseguenza, è il tentativo di trasformare solamente all'apparenza l'università italiana lasciando scoperti alcuni punti che, invece, all'estero vengono tenuti in considerazione creando, così, una sottospecie di ibrido mal funzionante. Non è da dimenticare, inoltre, che le università estere non sono pubbliche ma private per cui il costo delle tasse scolastiche è maggiore rispetto a quello da noi sostenuto e godono di più autonomia rispetto al sistema economico e politico del loro governo. 

In Italia i nostri ricercatori rischiano ogni giorno di perdere il loro posto di lavoro per mancanza di fondi mentre all'estero, che noi vogliamo copiare alla “bene e peggio”, vengono pagati meglio e sono maggiormente tutelati. Con la nuova riforma, pare, questa precarietà sia ancora più immanente e questo, per ovvi motivi, ha spinto i nostri ricercatori, e non solo, a manifestare.

Ciò che più mi preoccupa, personalmente, però è la democrazia dimostrata dal nostro attuale Governo nel fronteggiare gli scioperi e le manifestazioni indette: uno Stato maturo avrebbe dovuto tener conto del disgusto e del disappunto creato nella popolazione tentando di trovare un accordo oppure rinunciando a portare a termine a tutti i costi una Riforma così poco amata. Inoltre, l'Italia dimentica sempre quanto la ricerca e la cultura siano importanti per i fini economici dando la precedenza, invece, all'imprenditoria creando persino all'interno del sistema universitario nozionismo anziché reale cultura basata su uno studio che prediliga la formazione della persona sia a livello umano che di preparazione nell'affrontare problemi e concetti ardui da districare ma di queste lacune ne ho già parlato in passato.

Possiamo, infatti, riformare le regole quanto vogliamo ma se dobbiamo far girare l'economia universitaria come un meccanismo imprenditoriale allora abbiamo bisogno d'avere un numero di iscritti e laureati molto alto per riuscire a percepire gli incentivi statali.

Dal mio punto di vista, inoltre, se gli studenti dovranno essere i primi a giudicare l'andamento dei professori e, di conseguenza, a deciderne in parte il futuro, il sistema stesso crollerà su se stesso. I ragazzi, infatti, guardano poco la validità dell'insegnante quanto la facilità degli esami: basti pensare al famoso passaparola attraverso il quale la maggior parte di persone sceglie i corsi cosiddetti “più facili” lasciando decadere quelli che, invece, per pochi sono interessanti.

Ci lamentiamo che i nostri laureati non sono preparati ma il problema non è solo insito nell'organizzazione universitaria bensì anche nelle scelte degli stessi studenti che, dando maggiore importanza al “pezzo di carta” e credendo che solo questo basti, tentano di semplificare il proprio percorso non rendendosi conto delle difficoltà future.

Sono una studentessa anch'io che critica i propri coetanei, li osserva e li vede a loro volta criticare gli altri senza rendersi conto che, oramai, siamo noi stessi ad aiutare questa malattia che affligge l'università nel suo cammino. I pochi che vedono una soluzione guardano oltre i confini italiani, scelgono di andarsene e di non tornare; gli altri restano, alcuni di loro combattono per cambiare ma, alla fine si vedono costretti ad uniformarsi ed adattarsi, oppure farsi mantenere. 

mercoledì 1 dicembre 2010

Cronaca di una morte annunciata


Sono passati alcuni mesi dall'ultimo post che ho scritto ed ora, tra il caos creato dalla nuova Riforma universitaria, mi rimetto davanti ad un virtuale foglio bianco.

Probabilmente il prossimo articolo lo dedicherò proprio all'argomento sopraccitato nel tentativo di chiarire quali cambiamenti avverranno se anche il Senato varerà la nuova legge.

Oggi, scrivo riguardo alla pena di morte: un argomento piuttosto delicato e controverso che tenterò di toccare in maniera più oggettiva possibile lasciando scegliere al lettore da che parte stare.

In Via Zamboni a Bologna, oltre ad essere stata occupata nuovamente la Facoltà di Filosofia, è stata organizzata,  per domani alle 17.00, una protesta contro la Pena di Morte improntata sulla figura di Billy Moore, ospite  d'eccezione dell'incontro.

Per chi non avesse idea di chi sia quest'uomo brevemente riassumo la sua storia: implicato nella rapina di una casa ha ucciso, anni fa e senza premeditazione, l'anziano signore che ci abitava e si trovava all'interno al momento del fatto. È rimasto nel braccio della morte per anni, condannato alla sedia elettrica, per poi essere fortunatamente scagionato. Nel corso del tempo trascorso in carcere ha tentato di redimersi in più modi cercando di partecipare, soprattutto, alle attività della comunità.

La sua figura, ora, viene utilizzata come emblema dell'uomo che può redimersi, capendo i propri errori, pentendosene e ricreandosi una nuova vita.

Perché, quindi, essere contrari alla pena di morte? Una possibile risposta è già stata data: la fiducia ottimistica che il carcerato si redima senza, però, tenere conto delle varie e singole situazioni. Non sempre, infatti, questo è possibile: esistono alcuni casi recidivi che non sono in grado di comprendere dentro di sé che cosa sia la morale, o meglio ne hanno creata una propria nella quale la vita altrui non ha alcun senso se non quella di sottostare al loro sadico piacere.

Quello che tendo di spiegare è come ogni caso sia, a suo modo, singolare e debba venir studiato come a sé stante: non si possono prendere le stesse decisioni radicali per tutti sia per una fallibilità umana (potrebbe non essere colpevole del crimine oppure averlo commesso senza intenzionalità) sia perché c'è la possibilità che con un certo tipo di percorso di recupero il carcerato possa redimersi sia perché lo stesso potrebbe, una volta uscito di prigione, ricommettere lo stesso errore reiterandolo.

Dare l'ergastolo a vita, od obbligarli ai lavori forzati, sarebbe una soluzione migliore della pena di morte? Pongo questa domanda per il semplice motivo che, a questo punto, bisogna trovare un'altra soluzione: parlare semplicemente contro un sistema che si ritiene sbagliato senza pensare ad una possibile soluzione al problema risulta inutile e pretenzioso.

Nel caso, oltretutto, dell'ergastolo nascerebbe anche un discorso, che eviterò, legato all'economia ed ai soldi da investire per il mantenimento dei carcerati, già giudicato esoso in Italia.

Inoltre, c'è un'idea da cui non riesco a liberarmi: la vita è sacra, ma la libertà dell'individuo all'interno della società, la tranquillità di sentirsi al sicuro, sono degli optional? Come ci sentiremmo se nostro figlio o nostra figlia subissero una violenza? Istintivamente, cercheremmo una vendetta personale che, giustamente, sia il diritto sia la nostra coscienza non tollerano.

Lo stato, quindi, si prende l'onere di decidere riguardo questo condannato: cosa farne di lui? Personalmente opterei per una riabilitazione seria coadiuvata da un equipe di psicologi competenti ed in grado di occuparsi dei vari e possibili casi, cioè ognuno specializzato e preparato ad affrontare una determinata problematica del carcerato nel tentativo di risolverla (sia chiaro, risolvere inteso come superamento della stessa e non, come spesso accade, auto-convincimento della propria guarigione). Torniamo, però, al problema economico: chi dovrebbe mantenere questi medici? Si potrebbe creare una forza-lavoro con i prigionieri che dia la possibilità di creare soldi per poter mantenere le proprie cure. Così, infine, coloro in grado di superare il proprio disagio possono essere reinseriti, con attenzione, nella società... ma cosa succede ai recidivi oppure a coloro che hanno mentito ingraziandosi le simpatie dei dottori?

Il sistema per quanto possa sembrare ai nostri occhi perfetto presenterà sempre delle falle: l'importante è tentare di trovare una soluzione, non lasciarsi trascinare o manifestare senza creare delle idee per migliorare la situazione attuale: questo non vale solo per questo specifico discorso ma, in un certo senso, è uno dei tanti modi di affrontare la vita.