giovedì 25 febbraio 2010

I Titani della cultura classica e lo stagnamento lattiginoso dell'Italia in gelatina




Oggi mi è stato detto che tendo a disprezzare la cultura italiana inneggiando a quella estera e facendomi notare come, invece, abbiamo una diretta discendenza dal grande popolo romano.

Probabilmente quando mi esprimo posso dare l’idea, sbagliata, di questa “forma mentis” ma, in tutta sincerità, ciò che disprezzo è la società italiana attuale, non certamente l’antichità, tutt’altro.

La mia risposta a questo appunto fattomi, quindi, è stata: “Non ho nulla contro le culture antiche né latina né greca, che adoro, ma noi, in Italia, nemmeno le conosciamo adeguatamente mentre, molto spesso, all’estero se ne interessano in maniera più specifica e sono in grado di attingerne e attualizzarne gli insegnamenti inserendoli nella propria società. Vogliamo parlare, non lo so, per esempio di Seneca, Petronio o Cicerone o qualsiasi autore latino?”.

Attualmente il liceo classico è svillaneggiato e vilipeso perché giudicato ormai un ambiente in cui si studiano lingue defunte, o malate in modo terminale. Mi chiedo, allora, come mai, per esempio, Nietzsche o Heiddegger abbiano invece attinto dalla lingua e dalla cultura greca se è così tramortita come sembra a noi italiani. 

Forse che lo studio nei nostri licei si basa sull’apprendimento prettamente mnemonico della traduzione di versioni fatte in classe (o meglio palesemente copia-incollate da internet) e, in seguito, appiccicate nei compiti in classe senza delle spiegazioni relative al testo (vorrei dire esegesi o contestualizzazioni, ma sono terminologie sconosciute persino agli insegnanti)? 

È come se non comprendessimo quanto le culture antiche ci abbiano trasmesso e continuino ad insegnarci a vivere, e non mi meraviglio che questo punto sia totalmente incompreso dal popolo italico. 

Ho notato che dà molto fastidio sentirsi dire come il nostro paese, in quanto società (quanti eufemismi sto usando!), stia andando al macero e quanto all’estero questo sia visibilmente criticato: non vogliamo vedere dove stiamo finendo perché noi stessi siamo fatti di macerie ed ignoranza. 

Infarciti di televisione e sprazzi di cronaca italiana ci perdiamo quello che succede all’estero realmente (vedi: “La scomparsa dei fatti“, del magister Marco Travaglio) lo vediamo solo filtrato dai nostri notiziari, anche perché, tornando ad un vecchio discorso già da me toccato (autocitazionismo ipertrofico), quanta gente si può dire che sappia realmente l’inglese in Italia, e soprattutto chi lo conosce va a leggersi di propria volontà i giornali esteri?

Ho persino letto alcuni giorni fa un articolo su Bebbe Grillo, invitato dall’università di Oxford (come Harry Potter!), a tenere una lezione: escludendo la grande “gentilezza” dell’ambasciata italiana dimostrata nell’avvertire Oxford del grave errore che stavano compiendo nel contattare questo “mostro anti-politico”, venivano riportate alcune frasi del noto comico; in esse, per esempio, affermava come gli italiani all’estero si sentano ormai degli esiliati poiché, inseriti nella società nella quale vivono, sono sicuri di non volere più tornare nella propria patria a causa del sistema di corruzioni varie e tangentopoli endemiche (che noi supinamente accettiamo sicuri che “all’estero non sia poi così rose e fiori come sembra”).

Così la diretta conseguenza è l’aberrazione del sistema mentale risucchiato dalla cronaca spicciola che in un non-sense di frasi sconnesse (stile salotti televisivi) osa propugnare la tesi di quanto sia importante la cultura da cui discendiamo (come se fosse inscritta nel nostro patrimonio genetico e l’apprendessimo per osmosi).

Mi sa che devo trasferirmi oltreoceano se voglio sopravvivere…


mercoledì 10 febbraio 2010

"Fast food" english: disperazione della lingua inglese nel territorio italiano


Molto spesso mi ritrovo a criticare i miei coetanei, e non solo, per la mancanza di conoscenza, anche semplicemente basilare, della lingua inglese. Tutti sostengono quanto lo studio di questa materia sia importante per potersi confrontare con altre culture, ma nessuno, in realtà, si mette d’impegno per impararla, eppure sarebbe così semplice!

Tendenzialmente alcune persone mediamente acculturate sono convinte che le lingue straniere (anche l'inglese) siano più semplici da imparare se apprese durante l'infanzia, fase in cui i bambini sono molto ricettivi nei confronti di linguaggi, parole, accenti, etc. Tuttavia, senza scendere in queste ipotesi estreme, possiamo concludere che non sia affatto indispensabile questo iter per avere una cognizione accurata, per esempio, della lingua inglese.

Personalmente la prima volta che mi sono imbattuta nella lingua inglese è stata in prima superiore, perché purtroppo alle elementari e medie la scuola a cui ero iscritta offriva come lingua straniera solo il francese (che, oramai, ho completamente dimenticato). 

Inizialmente, al contrario di adesso, odiavo questa lingua anglosassone non per la sua essenza ma a causa del modo in cui veniva insegnata: sbattuta, letteralmente, in una classe dove i ragazzi già conoscevano le basi di questa nuova materia, mi sono ritrovata sperduta tra la grammatica base e la totale mancanza di lessico, obbligata a tentare, quasi inutilmente, di imparare a memoria alcune parole ricorrenti. Ero disperata. All’insegnante poco importava se una sola studentessa, in una classe di trenta persone, non riusciva a seguire, perché non capiva il meccanismo di costruzione delle frasi in inglese: il mio problema principale era la tendenza a complicare le frasi (cosa che faccio abitualmente in italiano) senza comprendere come, invece, l’inglese richiedesse, almeno inizialmente, una semplificazione maggiore nella costruzione dei periodi. Inoltre, il problema delle lezioni di questo genere è che l’insegnante tende comunque durante tutta l’ora a parlare in italiano e a leggere dal libro i dialoghi preparati, spesso con pessima pronuncia, e ad attenersi alle regole grammaticali fornite dal materiale didattico senza spiegazioni ulteriori.

L’anno seguente, poi, mi è capitata la fortuna di seguire delle lezioni di un professore americano di geografia inglese e tutto è iniziato a cambiare. Lui parlava solo ed esclusivamente nella sua lingua madre, sebbene conoscesse molto bene l’italiano, e, durante le spiegazioni, usava tutta l’immensa lavagna a sua disposizione riempiendola con dei disegni stilizzati di ciò che stava spiegando, abbinandoli alle parole corrispondenti: magicamente, ancora a digiuno totale d’inglese, dopo tre mesi iniziai a capirlo e a prendere appunti intuendo come si scrivevano alcune parole che non conoscevo. Così, grazie a lui, ho iniziato ad amare l’inglese e a capire quanto potesse, anche, essere divertente da imparare; mancava però ancora l’interazione, il dialogo: mi sentivo stupida a parlare in inglese e avevo una paura terribile di sbagliare qualcosa. Ho continuato a guardare film in madrelingua mantenendo il fattore d’ascolto sempre presente ed in questi ultimi tre, quattro anni, sembrerà strano, ho scoperto il mondo dei giochi di ruolo on-line. I server a cui si appoggiano questi giochi non sono mai italiani (mentre ce ne sono di francesi, tedeschi, russi, a volte spagnoli) e, ovviamente, si tende a prediligere quelli inglesi. Molti italiani tendono a chiudersi in comunità (anche chiamate gilde) chiuse in cui possono parlare la propria lingua a causa della mancata conoscenza dell’inglese; io ho preferito, invece, cercare di interagire con più gente straniera possibile. Benché inizialmente un tantino timida nell’esprimermi, piano piano, ho teso a parlare/scrivere sempre un po’ di più fino a riuscire ad interagire in tempo reale, grazie anche alla comprensione da parte di persone, ormai amici, che ogni qualvolta mi scusavo per degli errori, anche stupidi, mi dicevano di non preoccuparmi perché me la cavavo comunque molto bene dal loro punto di vista. Tutt’ora, avendoglielo chiesto, se faccio qualche errore di cui non mi rendo conto mi correggono gentilmente. 

Non serve, quindi, andare in vacanza in Inghilterra o in America per conoscere, o meglio cavarsela, con l’inglese poiché al giorno d’oggi abbiamo la grossissima fortuna di poter interagire attraverso il web con persone straniere (anche non obbligatoriamente di madrelingua) in tempo reale. Il problema sostanziale dell’Italia, dal mio punto di vista, è la mancanza, individuale, di volontà di imparare e studiare l’inglese e non tanto (anche se aiuta) la lacuna enorme del sistema di insegnamento di questa lingua.

domenica 7 febbraio 2010

Istantanea di una decomposizione: l'arte di non laurearsi

L’altro giorno a lezione è arrivata una donna di quarant’anni e si è seduta accanto a me, dopo avermi chiesto quattro volte se il posto era libero, ha iniziato a parlarmi dei suoi problemi a trovare lavoro mentre io speravo che il professore arrivasse il prima possibile per salvarmi e cominciare la lezione.


Questa signora mi ha detto di essersi laureata in giurisprudenza e che ora aveva deciso di iscriversi a Filosofia perché qualcuno l’aveva informata della facilità maggiore nel trovare lavoro… con una laurea in Filosofia? Inoltre ha tenuto a sottolineare l’importanza del pezzo di carta comunemente chiamato “laurea” e che, in realtà, nel campo lavorativo non viene nemmeno calcolato se non come handicap: un laureato si paga di più di una persona che non ha studiato e per questo, tendenzialmente, le aziende evitano di assumerli.

Mi dispiace ammetterlo ma quello che ho pensato è stato: “quale persona sana di mente darebbe lavoro ad una piattola del genere?”, probabilmente le hanno consigliato di iscriversi ad un’altra facoltà solo per togliersela dalle scatole.


Qui in Italia tutti ci lamentiamo un po’ tutti della mancanza di proposte di lavoro a nostra disposizione poi, però, parlando qua e là scopriamo che ci sono altre possibilità che si tendono a scartare.


Le persone vogliono un lavoro il più vicino possibile a casa, con poche ore lavorative, ben retribuito, possibilmente dietro una scrivania, in cui non mettersi realmente in gioco in prima persona (evitare le responsabilità è una qualità prettamente italiana) e dove non ci si sporchi le mani (infatti, attualmente pochi sono gli operai di origine italiana giacché tendiamo a disprezzare questo tipo di professione, forse perché ci hanno insegnato a credere che studiare e inserirsi in un certo tipo di ambiente ci renda migliori e ci faccia vivere meglio con noi stessi, ma è davvero così?), per cui in questo momento stiamo cancellando la maggior parte d’impieghi compresi quelli all’estero proprio perché non siamo disposti a ricominciare da capo una vita o ad imparare una nuova lingua (l’inglese è ostrogoto per la maggior parte di noi).


Ci lamentiamo che gli insegnanti vanno in pensione ad un’età troppo avanzata e, di conseguenza, tolgano lavoro ai giovani: personalmente nella mia facoltà i professori della “vecchia scuola” si stanno estinguendo, ahimé, lasciando posto a giovani, incapaci, a volte, di avere un rapporto studente-insegnante equilibrato, dove l’errore più grande da entrambe le parti è prendersi troppo poco sul serio e prendendo tutto con superficialità e, quindi, mancanza di sensibilità.


Attualmente, quindi, non penso sia il lavoro in sé a mancare (sebbene in Italia effettivamente tutti sono reticenti a prendere nuovi impiegati, gli organi statali per mancanza di fondi e i privati perché già al completo per quanto riguarda il proprio personale oppure perché la meritocrazia italiana, cioè l’essere figlio di tal dei tali, ha premiato quello sbagliato) quanto il bisogno di chi lo cerca di attivarsi e mettersi in gioco, dovendo a volte fare dei sacrifici e decidere di fare una gavetta che tutti prima di noi hanno affrontato, spostandosi da casa e, magari, a volte cominciare proprio come operaio se abbiamo realmente voglia di mantenerci da soli.