domenica 26 dicembre 2010

Vizi privati, pubbliche virtù


Collegio universitario Santa Dorotea
via Irnerio, 30 - Bologna
Scatto coperto da Copyright: Anakuklosis

È quasi il 2011 ed in Italia esiste ancora il mito della famiglia: molti hanno cercato di distruggerlo ma esso continua a persistere irridendo i pochi miscredenti che si battono affinché una realtà che non vuole essere accettata venga a galla.

Apro le notizie sul sito www.ansa.it proprio in questo momento, scorro la pagina e leggo: «“Sono riuscito ad uccidere mia figlia?” Arrestato dopo averla accoltellata» pare sia accaduto a causa della relazione che la ragazza aveva intrapreso con un uomo sposato.
Di storie del genere se ne trova almeno una al giorno pubblicata nelle news, spesso nemmeno raccontata al telegiornale, ed ormai nessuno più le ascolta: cadono nel dimenticatoio di un'immagine collettiva nella quale si pensa sia solamente un'eccezione alla regola della buona famiglia borghese.

Ho iniziato a pensare di scrivere un articolo dedicato a questo argomento perché poco tempo fa, parlando con una studentessa universitaria di Scienze della Formazione, si era imbastito un dialogo che tristemente ho lasciato decadere vedendo l'impermeabilità della ragazza alle mie parole: lei sosteneva che la maggior parte di violenze perpetrate a danno dei bambini avvengono per mano di persone estranee, io, al contrario, ho semplicemente ribadito la grossa responsabilità che viene attribuita alle famiglie oppure agli amici, in ogni caso persone vicine e conosciute.

Mi è stato risposto di andare in qualche associazione di recupero dedicata a casi di violenza e che avevo assolutamente torto, così il discorso è decaduto: troppo da spiegare, troppa chiusura da parte del mio interlocutore e mancanza di propensione, da parte mia, a perdere del tempo a mostrare dati e ricerche inerenti la questione.
Basta andare su google e digitare “violenze in famiglia” per trovare per esempio un articolo dedicato alla giornata contro le stesse (istituita il 29 gennaio 2010) in cui viene scritto (cito testualmente):

Secondo un'indagine dell'Associazione matrimonialisti italiani, il 70% degli stupri avviene tra le mura di casa, e solo il 6% è opera di estranei. Soltanto il 18% delle vittime considera un reato la violenza in famiglia, fisica o psicologica”.
Mettendo da parte la non troppo affidabile valenza delle percentuali a causa di risapute motivazioni (molte violenze non vengono denunciate) è alquanto sconvolgente come sia evidente che le mura di casa risultano le più pericolose ma noi non vogliamo ammetterlo.

Come mai cerchiamo di sotterrare nel nostro inconscio questa verità? La famiglia in Italia, come ho già detto, è intoccabile. Potremmo dare la colpa di tutto questo al perbenismo di un certo tipo di Chiesa e a quanto essa sia radicata nella nostra cultura media ma, al giorno d'oggi, non credo sia una giustificazione sufficiente. Ho il dubbio che il perché di tutto ciò risieda in quel 18% di vittime che non considera questo tipo di violenza un reato: un sottile filo divide la consapevolezza di ciò che accade dal timore di ammettere l'evidenza. Abbiamo tutti paura di pensare che la possibilità di essere feriti sia talmente vicina a noi da poterla toccare: ne siamo talmente attoniti che, spesso, mentiamo essendo più facile incolpare un estraneo che, quindi, non conosciamo per il male che ci circonda.

Come ammettere sia con noi stessi che con gli altri che qualcuno a cui vogliamo bene commette su di noi un certo tipo di violenza? Come smettere di pensare che sia colpa nostra ciò che sta accadendo, che siamo noi a cercare i guai?
Non è di certo facile: la violenza in famiglia è uno degli argomenti più delicati di cui ci si può occupare e tentare di aiutare le vittime lo è ancora di più.

Penso, però, che una possibile soluzione si possa trovare nel cambiamento di atteggiamento che dovremmo avere tutti nei confronti di queste situazioni. Una maggiore sensibilizzazione dell'opinione pubblica ed un tentativo maggiore di far comprendere sia la gravità sia la portata di tali situazioni aiuterebbe anche le vittime a farsi avanti più facilmente ed a lasciarsi aiutare: superato l'ostacolo dell'idea di nucleo famigliare intoccabile e sacro risulterebbe più semplice denunciare violenze sia fisiche che psicologiche oppure notarle più facilmente così da poter aiutare la persona, che magari è nostra amica, a trovare una soluzione o ad ammettere il problema.

Apriamo un po' gli occhi e guardiamoci attorno invece che lamentarci di quanto siamo soli, di quanto la società se ne lavi le mani e incolpare, magari, gente estranea puntando sull'atavica paura de “l'uomo nero” o, per usare altri termini, di ciò che non si conosce.

mercoledì 22 dicembre 2010

Manovre di (di)Istruzione


Come avevo accennato nel post precedente ho pensato di cercare di fare un po' di luce nel marasma dell'incomprensione creata dalla Riforma Gelmini, oramai divenuta realtà dopo la riconferma del Governo Berlusconi.

Manovre di (di)Istruzione
via Zamboni, 38 - Bologna
dicembre 2010
Scatto e Copyright di Anakuklosis
Molti ragazzi che frequentano normalmente l'università poco hanno capito dei disordini: ciò che ritengono più importante è poter andare a lezione senza dover cambiare sede poiché il dipartimento è occupato. Personalmente, non faccio parte della fascia di persone che manifesta la propria indignazione poiché mi manca tempo materiale per aderire ma comprendo quanto ci sia, in ogni caso, bisogno di gente (anche quei non frequentanti “delinquenti” criticati da Berlusconi) che si batta per i propri ed altrui diritti.

Il punto più importante e che maggiormente ha influenzato i disordini è la modalità di scelta inerente la qualità delle università in base al quale viene presa la decisione se dargli o meno degli incentivi. Quest'anno, infatti, secondo la lista annuale stilata dalla “QS TopUniversities” (visitabile all'indirizzo:http://www.topuniversities.com/university-rankings/world-university-rankings/2010/results) prima in classifica è Cambridge, seguita a ruota da Harvard e Yale, mentre le università italiane si trovano agli ultimi posti: prima tra tutte Bologna al numero 176 (http://www.topuniversities.com/university/61/university-of-bologna). Questo tipo di controllo qualità si basa su vari punti che vengono sottolineati anche all'interno della Riforma pensata dalla Gelmini andando a mettere in pericolo il lavoro stesso dei ricercatori. All'estero, infatti, il sistema universitario è costruito in modo differente da quello italiano, basandosi maggiormente su meritocrazia, collaborazione e, allo stesso tempo, competizione. Il problema basilare, di conseguenza, è il tentativo di trasformare solamente all'apparenza l'università italiana lasciando scoperti alcuni punti che, invece, all'estero vengono tenuti in considerazione creando, così, una sottospecie di ibrido mal funzionante. Non è da dimenticare, inoltre, che le università estere non sono pubbliche ma private per cui il costo delle tasse scolastiche è maggiore rispetto a quello da noi sostenuto e godono di più autonomia rispetto al sistema economico e politico del loro governo. 

In Italia i nostri ricercatori rischiano ogni giorno di perdere il loro posto di lavoro per mancanza di fondi mentre all'estero, che noi vogliamo copiare alla “bene e peggio”, vengono pagati meglio e sono maggiormente tutelati. Con la nuova riforma, pare, questa precarietà sia ancora più immanente e questo, per ovvi motivi, ha spinto i nostri ricercatori, e non solo, a manifestare.

Ciò che più mi preoccupa, personalmente, però è la democrazia dimostrata dal nostro attuale Governo nel fronteggiare gli scioperi e le manifestazioni indette: uno Stato maturo avrebbe dovuto tener conto del disgusto e del disappunto creato nella popolazione tentando di trovare un accordo oppure rinunciando a portare a termine a tutti i costi una Riforma così poco amata. Inoltre, l'Italia dimentica sempre quanto la ricerca e la cultura siano importanti per i fini economici dando la precedenza, invece, all'imprenditoria creando persino all'interno del sistema universitario nozionismo anziché reale cultura basata su uno studio che prediliga la formazione della persona sia a livello umano che di preparazione nell'affrontare problemi e concetti ardui da districare ma di queste lacune ne ho già parlato in passato.

Possiamo, infatti, riformare le regole quanto vogliamo ma se dobbiamo far girare l'economia universitaria come un meccanismo imprenditoriale allora abbiamo bisogno d'avere un numero di iscritti e laureati molto alto per riuscire a percepire gli incentivi statali.

Dal mio punto di vista, inoltre, se gli studenti dovranno essere i primi a giudicare l'andamento dei professori e, di conseguenza, a deciderne in parte il futuro, il sistema stesso crollerà su se stesso. I ragazzi, infatti, guardano poco la validità dell'insegnante quanto la facilità degli esami: basti pensare al famoso passaparola attraverso il quale la maggior parte di persone sceglie i corsi cosiddetti “più facili” lasciando decadere quelli che, invece, per pochi sono interessanti.

Ci lamentiamo che i nostri laureati non sono preparati ma il problema non è solo insito nell'organizzazione universitaria bensì anche nelle scelte degli stessi studenti che, dando maggiore importanza al “pezzo di carta” e credendo che solo questo basti, tentano di semplificare il proprio percorso non rendendosi conto delle difficoltà future.

Sono una studentessa anch'io che critica i propri coetanei, li osserva e li vede a loro volta criticare gli altri senza rendersi conto che, oramai, siamo noi stessi ad aiutare questa malattia che affligge l'università nel suo cammino. I pochi che vedono una soluzione guardano oltre i confini italiani, scelgono di andarsene e di non tornare; gli altri restano, alcuni di loro combattono per cambiare ma, alla fine si vedono costretti ad uniformarsi ed adattarsi, oppure farsi mantenere. 

mercoledì 1 dicembre 2010

Cronaca di una morte annunciata


Sono passati alcuni mesi dall'ultimo post che ho scritto ed ora, tra il caos creato dalla nuova Riforma universitaria, mi rimetto davanti ad un virtuale foglio bianco.

Probabilmente il prossimo articolo lo dedicherò proprio all'argomento sopraccitato nel tentativo di chiarire quali cambiamenti avverranno se anche il Senato varerà la nuova legge.

Oggi, scrivo riguardo alla pena di morte: un argomento piuttosto delicato e controverso che tenterò di toccare in maniera più oggettiva possibile lasciando scegliere al lettore da che parte stare.

In Via Zamboni a Bologna, oltre ad essere stata occupata nuovamente la Facoltà di Filosofia, è stata organizzata,  per domani alle 17.00, una protesta contro la Pena di Morte improntata sulla figura di Billy Moore, ospite  d'eccezione dell'incontro.

Per chi non avesse idea di chi sia quest'uomo brevemente riassumo la sua storia: implicato nella rapina di una casa ha ucciso, anni fa e senza premeditazione, l'anziano signore che ci abitava e si trovava all'interno al momento del fatto. È rimasto nel braccio della morte per anni, condannato alla sedia elettrica, per poi essere fortunatamente scagionato. Nel corso del tempo trascorso in carcere ha tentato di redimersi in più modi cercando di partecipare, soprattutto, alle attività della comunità.

La sua figura, ora, viene utilizzata come emblema dell'uomo che può redimersi, capendo i propri errori, pentendosene e ricreandosi una nuova vita.

Perché, quindi, essere contrari alla pena di morte? Una possibile risposta è già stata data: la fiducia ottimistica che il carcerato si redima senza, però, tenere conto delle varie e singole situazioni. Non sempre, infatti, questo è possibile: esistono alcuni casi recidivi che non sono in grado di comprendere dentro di sé che cosa sia la morale, o meglio ne hanno creata una propria nella quale la vita altrui non ha alcun senso se non quella di sottostare al loro sadico piacere.

Quello che tendo di spiegare è come ogni caso sia, a suo modo, singolare e debba venir studiato come a sé stante: non si possono prendere le stesse decisioni radicali per tutti sia per una fallibilità umana (potrebbe non essere colpevole del crimine oppure averlo commesso senza intenzionalità) sia perché c'è la possibilità che con un certo tipo di percorso di recupero il carcerato possa redimersi sia perché lo stesso potrebbe, una volta uscito di prigione, ricommettere lo stesso errore reiterandolo.

Dare l'ergastolo a vita, od obbligarli ai lavori forzati, sarebbe una soluzione migliore della pena di morte? Pongo questa domanda per il semplice motivo che, a questo punto, bisogna trovare un'altra soluzione: parlare semplicemente contro un sistema che si ritiene sbagliato senza pensare ad una possibile soluzione al problema risulta inutile e pretenzioso.

Nel caso, oltretutto, dell'ergastolo nascerebbe anche un discorso, che eviterò, legato all'economia ed ai soldi da investire per il mantenimento dei carcerati, già giudicato esoso in Italia.

Inoltre, c'è un'idea da cui non riesco a liberarmi: la vita è sacra, ma la libertà dell'individuo all'interno della società, la tranquillità di sentirsi al sicuro, sono degli optional? Come ci sentiremmo se nostro figlio o nostra figlia subissero una violenza? Istintivamente, cercheremmo una vendetta personale che, giustamente, sia il diritto sia la nostra coscienza non tollerano.

Lo stato, quindi, si prende l'onere di decidere riguardo questo condannato: cosa farne di lui? Personalmente opterei per una riabilitazione seria coadiuvata da un equipe di psicologi competenti ed in grado di occuparsi dei vari e possibili casi, cioè ognuno specializzato e preparato ad affrontare una determinata problematica del carcerato nel tentativo di risolverla (sia chiaro, risolvere inteso come superamento della stessa e non, come spesso accade, auto-convincimento della propria guarigione). Torniamo, però, al problema economico: chi dovrebbe mantenere questi medici? Si potrebbe creare una forza-lavoro con i prigionieri che dia la possibilità di creare soldi per poter mantenere le proprie cure. Così, infine, coloro in grado di superare il proprio disagio possono essere reinseriti, con attenzione, nella società... ma cosa succede ai recidivi oppure a coloro che hanno mentito ingraziandosi le simpatie dei dottori?

Il sistema per quanto possa sembrare ai nostri occhi perfetto presenterà sempre delle falle: l'importante è tentare di trovare una soluzione, non lasciarsi trascinare o manifestare senza creare delle idee per migliorare la situazione attuale: questo non vale solo per questo specifico discorso ma, in un certo senso, è uno dei tanti modi di affrontare la vita.

sabato 22 maggio 2010

Spasimi di una giornata differente: aiutare la città ad aiutare i disabili


Sono andata in giro per Bologna con un amico che, purtroppo, è sulla sedia a rotelle (non quelle super tecnologiche che costano una mazzata di soldi e puoi muovere con un dito ma una da spingere a mano): è stato un incubo e mi è stato persino detto che Milano è peggio. Le strade sono piene di buche, o fatte in porfido o con piastrellacce rovinate e molti marciapiedi con scalini o dislivelli. Molti negozi sembra abbiano scritto “Io non posso entrare” come i cartelli per i cani a causa di scalini troppo alti. Bagni, ovviamente, non a norma, dei ristoranti corollano amorevolmente il tutto aprendo la strada ad uno dei miei discorsi preferiti: criticare Trenitalia chiedendomi, nel frattempo, dove siano finite tutte quelle belle leggi che dovrebbero obbligare gli esercenti a creare strutture adeguate che non tolgano la libertà a persone con problemi (dopotutto quanto costa fare uno scivolo al posto degli scalini? Alla fine chi cammina con le proprie gambe non ha problemi a camminare su una superficie diversa; oppure a mettere una pedana, anche non fissa da quattro soldi?).

Alla stazione di Bologna ho scoperto un nuovo punto dove non ero mai stata, non avendone mai avuto bisogno: il punto per persone diversamente abili che, praticamente, si trova isolato da tutte le altre biglietterie ed è una sottospecie di ufficio. Vai lì, ti fai fare il biglietto, te lo fai stampare in un altro ufficio, torni di nuovo nel primo posto in cui sei andato ed aspetti che qualcuno ti venga a prendere, poi vai all’ascensore, ti fai un lungo corridoio, riprendi l’ascensore e ti trovi nel binario prescelto per il tuo treno. Ora la parte divertente: ti caricano su un muletto sollevatore, identico a quelli utilizzati nel settore industriale, e ti fanno salire sul treno. 

Come molti sapranno esistono alcuni regionali, nuovi, a due piani che non hanno questo problema dei maledetti scalini (che, in realtà, sono pericolosi anche per noi che ci teniamo in piedi su due gambe: quante volte è capitato di inciamparci o comunque di salire/scendere terrorizzati di farci male con le proprie valige in mano?)… perlomeno così eviterebbero ai malcapitati la trafila al punto disabili, il dover arrivare mezz’ora prima della partenza del treno per fare tutte le carte ed essere caricati come delle casse.

Questo, però, non è tutto: come molto spesso abbiamo appreso anche da alcuni servizi della televisione lanciati da “Striscia la Notizia” in Italia troviamo strutture nuove, mai utilizzate, chiuse o senza addetti oppure aperte e senza corrente elettrica, senza contare tutti i fondi stanziati dallo stato e mai andati a buon fine, spesso re-indirizzati ed investiti in tutt’altro.

A noi, che non abbiamo problemi motori, più di tanto non interessa ma non ho mai digerito quando le persone in qualche modo tolgono la libertà ad altri: non dare la possibilità, ai diversamente abili, di accedere a tutte le strutture a cui, invece, noi accediamo facilmente toglie loro un’indipendenza che molto spesso vorrebbero acquisire e che siamo proprio noi a non dargli (questo discorso varrebbe, in un senso ribaltato, anche per coloro che tendono a fare il contrario, cioè a viziare qualcuno credendo di aiutarlo: anche questo sarebbe da analizzare in un discorso a parte).

Forse sono troppo critica, forse lo sono troppo poco: non è questo che dovremmo discutere o giudicare ma solo prendere atto del contenuto di questo articolo e pensare a come sarebbe semplice migliorare, almeno un tantino, la situazione in Italia.

mercoledì 14 aprile 2010

L'istinto dimenticato


Sono cresciuta in un paesino di campagna dove il contatto con gli animali è qualcosa di naturale, ho imparato ad amarli grazie ad un padre appassionato.

Da grande ho avuto cani e gatti ma l’animale che più mi ha colpito e con cui sono cresciuta è il cavallo. Avevo solo pochi mesi quando mio padre mi mise in groppa alla sua puledra facendomi una foto. Non sono però i vecchi ricordi d’infanzia di cui voglio parlare, ma di uno degli animali che personalmente ritengo più “umani” sebbene a tutt’oggi molti dicano che siano “stupidi”.

I cavalli hanno una memoria molto sviluppata: se il padrone gli fa fare due volte la stessa strada fermandosi negli stessi punti, il cavallo ricorderà il percorso e le fermate senza che l’uomo glielo ricordi. Questo fattore, a volte, convince le persone della stupidità di questo animale. 

Tendenzialmente, anche se piano piano questa idea sta cambiando, viene insegnato ai giovani cavallerizzi a dominare il cavallo e non, al contrario, a giocare con lui instaurando un rapporto di scambio reciproco, imparando a sentirlo ed a percepirne i cambiamenti d’umore. Probabilmente questo deriva, anche, da una paura della forza che un animale così grande può sprigionare: nessuno può rimanere in sella ad un cavallo che non vuole essere domato a meno ché non usi una corda e ci si leghi.

Personalmente, ho cresciuto una puledrina di sei mesi: quando l’ho presa era terrorizzata, bastava toccarla con un dito per farla tremare come una foglia perché era stata divisa dalla mamma di colpo e troppo presto. Ogni qualvolta ci si avvicinava a lei, scappava, eppure c’era qualcosa che, se restavi lì immobile ad osservarla, le sussurravi parole per lei senza senso con voce calma, piano piano veniva accanto a te, piena di timore ma allo stesso tempo di curiosità e bisogno di contatto.

Era un cucciolo troppo cresciuto molto attento ed intelligente: evitava i pericoli da sola, guardava dove andava, era sempre concentrata ed in due mesi, in cui il mio unico lavoro è stato passare del tempo a contatto con lei accarezzandola e giocandoci, si è trasformata in un animale sicuro di sé ed affidabile. Aveva solo il disperato bisogno di fidarsi di qualcuno che non le facesse del male e non se ne andasse. 

Questo tipo di animali ha una sensibilità molto spiccata, probabilmente legata anche a quella parte primitiva ed istintuale che li faceva sopravvivere allo stato brado, e questo li rende i perfetti candidati per la “pet therapy“.

Questa terapia, riconosciuta ed appoggiata a livello internazionale, sostiene che (affiancata ovviamente dalle giuste cure mediche) la compagnia di un animale sia un aiuto rilevante per aiutare il paziente a superare il proprio problema sia a livello psicologico che fisico.

Il cavallo è uno degli animali in questo caso più utilizzato, proprio grazie alla sua stazza (può dare sicurezza imparare a chiedergli delle piccole cose come camminare o andare a destra/sinistra) ed alla sua sensibilità (se c’è, per esempio, una persona malata l’animale cambia subito atteggiamento nei suoi confronti, divenendo a volte anche molto più docile) sia come aiuto per persone con handicap sia, solamente, come mezzo attraverso il quale prendere sicurezza delle proprie capacità lasciando alle spalle blocchi psicologici vari, in altre parole, un compagno ideale nel percorso di guarigione e ripresa della coscienza del proprio corpo.

giovedì 25 marzo 2010

Oltre l'uomo senza qualità...




La filosofia è morta e l’abbiamo uccisa noi, a parte qualche barlume d’uomo disperso qua e là nel marasma in cui ci muoviamo.


Persino nelle aule universitarie, durante le lezioni, si può avvertire il peso di questo immenso lutto. Parliamo di date e dati, a volte, se siamo fortunati, assistiamo ad un dibattito “pilotato” nel tentativo di far accettare allo studente la verità in cui il professore crede, forzando, stirando e sfaldando autori estrapolandoli dal loro contesto. Cerchiamo di sotterrare le parole scritte spingendole nell’auto-fraintendimento, disgregandole ed obbligandole a riplasmarsi tradendo il proprio autore.   

Dov’è, mi chiedo allora, finita la domanda? Cerco l’uomo, ma dov’è l’uomo se la domanda è scomparsa? La filosofia è un continuo chiedere, interrogarsi, scontrarsi e confrontarsi al di là di ciò che tendo a chiamare dogmi, ossia delle certezze entro le quali ci rinchiudiamo per scelta o consolazione, ma oggi in quanti di noi vogliono realmente mettersi in gioco e rischiare di perdersi in una foresta? Sebbene ognuno di noi tenda a sentirsi l’eletto, il demiurgo della situazione, per presunzione, pochi di noi comprendono quanto non sia importante sapere e conoscere qualcosa con certezza quanto cercare, mutare, non divenire statici ed avere il coraggio di cambiare la propria idea.

Chi si sorprende più ormai? Crediamo che desensibilizzarci ci renda più forti, in realtà ci rende solamente più schizofrenici: la forza delle emozioni, quella che ti libera da tutte queste catene autoimposte dalla società che costruisce cyborg viene vista come qualcosa da cui distanziarsi. 

Non sappiamo più sognare: ci limitiamo a schematizzare tutto, persino i sentimenti. Arriviamo ad amare qualcuno per vari calcoli fatti: come in una tabella scegliamo il nostro patner a seconda delle sue qualità senza pensare a ciò che proviamo realmente per quella persona. Scegliamo il nostro lavoro per soldi e facilità nell’espletarlo. Guardiamo un film ed invece di lasciarci andare, di lasciar battere il cuore a ritmo dei suoni che ci inondano, ascoltare il fluire della pellicola che passa davanti ai nostri occhi ci chiediamo il significato di una trama per capirne la morale finale, quel qualcosa che mette un punto a tutta la fruizione, quel qualcosa che fa sì che quel film non scavi dentro di noi, che ci insegni ad interpretare i mondi entro cui si muove (e mentre scrivo questo penso ad esempio a David Lynch).

L’arte cerca di violentarci e noi rimaniamo a guardarla impassibili: niente ci tocca se non può ferirci fisicamente, quale orrore! (“L’orrore… l’orrore” diceva Kurtz alla fine di “Cuore di Tenebra” di Conrad, oppure, per chi non lo conosce in “Apocalypse Now” di Coppola).

Siamo fieri di trasformarci in pietre, di mostrarci forti agli occhi di altri che, come noi, credono nella forza dell’impassibilità senza comprendere quanto, al giorno d’oggi, sia più forte la persona che ha il coraggio di mostrare le proprie lacrime, perché libera da delle gabbie che rendono tutti gli altri repressi all’interno di un meccanismo mentale che li stringe in una morsa per poi sfociare, nel migliore dei casi, in crisi di panico apparentemente insensate.

Usiamo dei trucchi per dissociarci e provare qualche ebbrezza perché abbiamo rifiutato il nostro cuore che, dentro di noi, si ribella e richiede umanità ma non possiamo più dargliela. Droghiamo i nostri sensi per sentirci onnipotenti ed allo stesso per provare quel qualcosa che non siamo più in grado di sentire: ma degli dèi immortali senza cuore e dolore, sogni e lacrime, che senso hanno d’esistere?

sabato 13 marzo 2010

"L'ombra della luce"

English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/some-notes-about-philosophy-on.html



“Ora, io ti dirò - e tu ascolta e ricevi la mia parola -
quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:
l'una che "è", e che non è possibile che non sia 
- è il sentiero della persuasione, poiché tien dietro alla verità -
l'altra che "non è”, e che è necessario che non sia.
E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
Infatti, non potresti conoscere ciò che non è,
perché non è cosa fattibile,
né potresti esprimerlo. [...]
Infatti lo stesso è pensare ed essere.

Parmenide - Frammenti



Non è facile fare delle traduzioni fedeli al testo evitando di “manometterlo” ed allo stesso tempo adattandolo ad una lingua differente da quella originale. 


La cosa più importante, iniziando una traduzione, è cercare di capire non tanto quale sia il significato corrispondente della parola che dobbiamo tradurre quanto il significato interno ad essa e, cioè, cosa questa voglia dire nel contesto testuale, sociale e mentale in cui è stata scritta.

Prendiamo la parola greca αληθέια comunemente la traduciamo con la parola “verità” ma, come fa notare Heidegger nel “Parmenide”, se ci riferiamo all’etimologia di questa parola ci possiamo rendere conto come al suo principio ci sia la classica “alpha” privativa. Questo, quindi, ci porta a comprendere come il termine αληθέια nella traduzione in lingua italiana perda il suo significato originario assieme alla sua a- privativa che, per i greci, avvicinava la verità ad un senso di s-velamento (Entbergung), parola coniata da Heidegger creata proprio per lasciar intendere il significato originario di  αληθέια ed allo stesso tempo per non attingere ad una parola già nota e, di conseguenza, “intaccata” dal pensiero odierno. 

Arrivati a questo punto ci sono quattro punti principali da notare nel significato in sé di questa parola greca:

1. Se c’è qualcosa di “s-velato” dev’esserci anche qualcosa che viene “velato” cosa sia nascosto, però, non è dato saperlo. Svelamento in questo senso viene inteso come qualcosa che viene occultato oppure preservato. 

2. Tornando alla a- privativa, dobbiamo notare come svelatezza, in questo caso, venga intesa come qualcosa che toglie, o che elimina, ciò che è velato oppure potrebbe significare anche che la velatezza in sé non esiste. Da questo, quindi, nasce un conflitto presente nell’essenza della verità: l’annientamento della velatezza, da noi occidentali intesa, generalmente, in senso negativo poiché il vuoto, il nulla, nella nostra concezione, legata prettamente ad una visione scientifica, è visto come inconcepibile; mentre nelle filosofie orientali è concepito come qualcosa di positivo ed un insegnamento, in questo senso, nella nostra cultura viene introdotto dalla filosofia di Schopenhauer, basata proprio su questo tipo di studi, che sostiene come l’uomo possa arrivare alla libertà solamente andando contro la Volontà, meccanismo che regola la vita stessa, e distruggendola finendo, così facendo, nel Nirvana, il nulla; però, liberandosi, al contrario che nelle filosofie orientali, dall’angoscia della ricerca incessante.

3. La “dis-velatezza” cioè il togliere, strappandolo, ciò che è velato nasce dal conflitto tra svelato e velato. Questo conflitto potrebbe far pensare alla filosofia di Schelling o, del più conosciuto, Hegel e del “gioco” sistematico tra tesi, antitesi e sintesi ma in questo senso, allora, la svelatezza verrebbe intesa in quanto divinità che porta a compimento il “cogito ergo sum” di Cartesio (cioè un dio che il momento in cui concepisce se stesso è, poi, in grado di creare il mondo), da cui Heidegger si discosta poiché la soggettività intesa come “cogito ergo sum” cartesiano (o come egocentrismo individualista) è estranea al mondo greco e, di conseguenza, in questo senso, il significato dell’ αληθέια andrebbe perso; mentre ne fa parte il momento in cui viene intesa come “esserci” (cioè colui che si pone la domanda su cosa sia l’Essere) che presta ascolto all’Essere (“Una cosa come l’autocertezza del soggetto cosciente di se stesso è estranea alla grecità. Viceversa, è ben vero che nell’essenza moderna della «soggettività dello spirito» - la quale, correttamente intesa, non ha nulla a che fare con il «soggettivismo» - risuona ancora l’essenza mutata dell’αληθέια greca“).

4. "Nessun risuonare, eguaglia il suono originario. L’iniziale si rivolge solo all’iniziale. L’uno non coincide con l’altro, e nondimeno entrambi sono lo Stesso (das Selbe) anche quando sembrano allontanarsi l’una dall’altro nell’inconciliabile” (tratto da “Parmenide” di Heidegger). Parlando di “suono originario”, Heidegger, si riferisce all’Essere, all’αληθέια e, in questa frase, sembra ribadire con parole diverse ciò che Parmenide intendeva con la famosissima formula citata nell'incipit.

In entrambe le frasi dei due filosofi, infatti, si può notare come sebbene l’essere ed il non essere, la svelatezza e ciò che è velato, siano distinti l’uno dall’altro nondimeno essi si compenetrano poiché non possono esistere se non in relazione tra loro. Un esempio pratico lo si può concepire pensando alla luce ed al buio: il buio è dato dall’assenza di luce e la luce, intesa nella sua massima potenza, non possiamo guardarla direttamente perché altrimenti ci accecherebbe. Cambiando, ora, le parole “buio” con “abissalità” e “luce” con “risplendere” (concetti utilizzati da Heidegger indistintamente per indicare la divinità, il δαιμον intesa come αληθέια) possiamo capire come entrambe siano distinte ma allo stesso tempo unite nel formare un singolo significato e, cioè, ciò che Heidegger concepisce come verità, senza far differenziazione tra abissale o splendente, tra ombra o luce, poiché per gli antichi pensatori greci questa diversità decadeva. 

martedì 2 marzo 2010

"Invictus" di Clint Eastwood


 “Dal profondo della notte che mi avvolge,buia come il pozzo che va da un polo all’altro,
ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile.
Nella morsa delle circostanze,
non ho indietreggiato, né ho pianto.
Sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
incombe, ma l’orrore dell’ombra,
e la minaccia degli anni
non mi trova, e non mi troverà, spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la pergamena,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima…” 

 
Ieri sera sono andata al cinema a vedere l’ultimo film di Clint Eastwood, “Invictus”. Devo ammettere che non ero molto convinta di volerci andare a causa della presenza, molto accentuata, dell’elemento sportivo che, personalmente, non mi entusiasma ma alla fine mi sono convinta, complice il bisogno di staccare il cervello da “uno studio matto e disperatissimo”.

Il regista, ispirandosi al romanzo “The Human Factor: Nelson Mandela and the Game that Changed the World” di John Carlin, ha deciso di filtrare la storia di Mandela (impersonato da Morgan Freeman) attraverso quella della crescita, a livello agonistico, della squadra di rugby del proprio Paese, gli Springboks, fino a portarla alla vittoria del campionato mondiale del 1995. 

Le prime riprese sono dedicate a dei falsi documentari, ricostruzioni di alcuni pezzi di storia filmati con Morgan Freeman al posto di Mandela, probabilmente con la precisa volontà registica di evitare la storia della biografia di quest’uomo politico, sottolineandone la scelta di una lettura personale relativa ad un aspetto particolare. Interessante è notare come Clint Eastwood abbia deciso di filmare l’intera pellicola esattamente nei luoghi originari in cui si è svolta la vera storia.  

Inizialmente presentato come un mito agli occhi della gente, Mandela, a poco a poco, nel dipanarsi del film, ci viene presentato come uomo e, successivamente, proprio grazie alla sua umanità come invincibile (tramite la lettura di una poesia di William Ernest Henley, “Invictus”, regalata al capitato della squadra di rugby, François Pienaar (impersonato da Matt Damon) e che aveva accompagnato Mandela, nel superamento dei difficili anni di prigionia.

Vediamo questo uomo politico, talmente immerso nel suo lavoro dal non avere orari. La sua figura diviene sintomatica del tentativo di unire coloro che lo amano e l’hanno votato, la popolazione di colore, con coloro che vorrebbero restaurare il vecchio governo, i bianchi. 

Questa separazione di intenti viene sottolineata in modo ideologico dalla squadra di rugby della nazione (ma anche dal soprannome, dato con affetto al presidente dalla popolazione indigena, Madiba), nella quale gioca un unico ragazzo di colore; la squadra stessa è odiata dai primi (tanto da volerne il cambio del nome e dei colori della maglia) ed amata dai secondi.

Mandela, avendo simpatia per questo tipo di sport, ed osservando questa scia di razzismo che la popolazione di colore nutre a causa delle ingiustizie subite in passato, decide di occuparsi personalmente della reintegrazione della squadra così da renderla, infine, simbolo di una coesione neppure immaginata in precedenza.

Un uomo solo, con una figlia che non comprende le sue scelte politiche, malato a causa della mancanza di riposo ma amato da un intero Paese, giudicato da lui stesso la propria famiglia. La scena più toccante è il momento in cui la squadra di rugby va in visita alla prigione in cui Mandela, anni prima di diventare presidente, era stato rinchiuso: piccola (cinque metri quadrati) e buia, con delle coperte a terra che fungevano da letto ed una sedia; lo sguardo di Damon accompagna la nostra immaginazione facendoci vedere quest’uomo seduto sulla sedia, in questo angusto spazio, leggere una poesia (“Invictus”), che ascoltiamo decantata dalla stessa voce fuori campo di Morgan Freeman, e poi, osserviamo Mandela, ai lavori forzati, guardarci mentre sentiamo le parole “Io sono invincibile”. 

Invincibile perché al di là di tutto il male che abbiano potuto fargli è riuscito a superare tutto ciò, cercando quello che, secondo lui, era il bene per la sua nazione, per la sua famiglia. 

Raccontato così, sembra un po’ retorico e una specie di panegirico della figura di Mandela, ma la presenza del rugby tende proprio a mitigare questa celebrazione ponendola come corollario di una storia che gioca su un sottile equilibrio a cavallo tra mito e uomo, lasciando comprendere allo spettatore quanto in realtà Mandela non incarni una superficiale mitografia, di sapore agiografico, ma  incorpori ed esprima la necessità di attuare un radicale rivolgimento storico, politico e sociale, assolvendo il suo destino di guida e leader sul cammino della redenzione di una coscienza civile, al di là del grigiore di sterili incomprensioni.

Il film, per chi conosce bene la storia di Mandela, potrebbe sembrare un po’ scontato, a volte semplicistico, ma proprio per questo, attraverso il tipico stile asciutto e lineare di Eastwood, si trasforma in una pellicola di facile fruizione per un pubblico poco preparato sull’argomento, trasmettendogli un nuovo interesse per questa figura, e piacevole anche per quegli spettatori, più esigenti, che decidono di lasciarsi raccontare “una storia” e non una biografia dettagliata.

giovedì 25 febbraio 2010

I Titani della cultura classica e lo stagnamento lattiginoso dell'Italia in gelatina




Oggi mi è stato detto che tendo a disprezzare la cultura italiana inneggiando a quella estera e facendomi notare come, invece, abbiamo una diretta discendenza dal grande popolo romano.

Probabilmente quando mi esprimo posso dare l’idea, sbagliata, di questa “forma mentis” ma, in tutta sincerità, ciò che disprezzo è la società italiana attuale, non certamente l’antichità, tutt’altro.

La mia risposta a questo appunto fattomi, quindi, è stata: “Non ho nulla contro le culture antiche né latina né greca, che adoro, ma noi, in Italia, nemmeno le conosciamo adeguatamente mentre, molto spesso, all’estero se ne interessano in maniera più specifica e sono in grado di attingerne e attualizzarne gli insegnamenti inserendoli nella propria società. Vogliamo parlare, non lo so, per esempio di Seneca, Petronio o Cicerone o qualsiasi autore latino?”.

Attualmente il liceo classico è svillaneggiato e vilipeso perché giudicato ormai un ambiente in cui si studiano lingue defunte, o malate in modo terminale. Mi chiedo, allora, come mai, per esempio, Nietzsche o Heiddegger abbiano invece attinto dalla lingua e dalla cultura greca se è così tramortita come sembra a noi italiani. 

Forse che lo studio nei nostri licei si basa sull’apprendimento prettamente mnemonico della traduzione di versioni fatte in classe (o meglio palesemente copia-incollate da internet) e, in seguito, appiccicate nei compiti in classe senza delle spiegazioni relative al testo (vorrei dire esegesi o contestualizzazioni, ma sono terminologie sconosciute persino agli insegnanti)? 

È come se non comprendessimo quanto le culture antiche ci abbiano trasmesso e continuino ad insegnarci a vivere, e non mi meraviglio che questo punto sia totalmente incompreso dal popolo italico. 

Ho notato che dà molto fastidio sentirsi dire come il nostro paese, in quanto società (quanti eufemismi sto usando!), stia andando al macero e quanto all’estero questo sia visibilmente criticato: non vogliamo vedere dove stiamo finendo perché noi stessi siamo fatti di macerie ed ignoranza. 

Infarciti di televisione e sprazzi di cronaca italiana ci perdiamo quello che succede all’estero realmente (vedi: “La scomparsa dei fatti“, del magister Marco Travaglio) lo vediamo solo filtrato dai nostri notiziari, anche perché, tornando ad un vecchio discorso già da me toccato (autocitazionismo ipertrofico), quanta gente si può dire che sappia realmente l’inglese in Italia, e soprattutto chi lo conosce va a leggersi di propria volontà i giornali esteri?

Ho persino letto alcuni giorni fa un articolo su Bebbe Grillo, invitato dall’università di Oxford (come Harry Potter!), a tenere una lezione: escludendo la grande “gentilezza” dell’ambasciata italiana dimostrata nell’avvertire Oxford del grave errore che stavano compiendo nel contattare questo “mostro anti-politico”, venivano riportate alcune frasi del noto comico; in esse, per esempio, affermava come gli italiani all’estero si sentano ormai degli esiliati poiché, inseriti nella società nella quale vivono, sono sicuri di non volere più tornare nella propria patria a causa del sistema di corruzioni varie e tangentopoli endemiche (che noi supinamente accettiamo sicuri che “all’estero non sia poi così rose e fiori come sembra”).

Così la diretta conseguenza è l’aberrazione del sistema mentale risucchiato dalla cronaca spicciola che in un non-sense di frasi sconnesse (stile salotti televisivi) osa propugnare la tesi di quanto sia importante la cultura da cui discendiamo (come se fosse inscritta nel nostro patrimonio genetico e l’apprendessimo per osmosi).

Mi sa che devo trasferirmi oltreoceano se voglio sopravvivere…


mercoledì 10 febbraio 2010

"Fast food" english: disperazione della lingua inglese nel territorio italiano


Molto spesso mi ritrovo a criticare i miei coetanei, e non solo, per la mancanza di conoscenza, anche semplicemente basilare, della lingua inglese. Tutti sostengono quanto lo studio di questa materia sia importante per potersi confrontare con altre culture, ma nessuno, in realtà, si mette d’impegno per impararla, eppure sarebbe così semplice!

Tendenzialmente alcune persone mediamente acculturate sono convinte che le lingue straniere (anche l'inglese) siano più semplici da imparare se apprese durante l'infanzia, fase in cui i bambini sono molto ricettivi nei confronti di linguaggi, parole, accenti, etc. Tuttavia, senza scendere in queste ipotesi estreme, possiamo concludere che non sia affatto indispensabile questo iter per avere una cognizione accurata, per esempio, della lingua inglese.

Personalmente la prima volta che mi sono imbattuta nella lingua inglese è stata in prima superiore, perché purtroppo alle elementari e medie la scuola a cui ero iscritta offriva come lingua straniera solo il francese (che, oramai, ho completamente dimenticato). 

Inizialmente, al contrario di adesso, odiavo questa lingua anglosassone non per la sua essenza ma a causa del modo in cui veniva insegnata: sbattuta, letteralmente, in una classe dove i ragazzi già conoscevano le basi di questa nuova materia, mi sono ritrovata sperduta tra la grammatica base e la totale mancanza di lessico, obbligata a tentare, quasi inutilmente, di imparare a memoria alcune parole ricorrenti. Ero disperata. All’insegnante poco importava se una sola studentessa, in una classe di trenta persone, non riusciva a seguire, perché non capiva il meccanismo di costruzione delle frasi in inglese: il mio problema principale era la tendenza a complicare le frasi (cosa che faccio abitualmente in italiano) senza comprendere come, invece, l’inglese richiedesse, almeno inizialmente, una semplificazione maggiore nella costruzione dei periodi. Inoltre, il problema delle lezioni di questo genere è che l’insegnante tende comunque durante tutta l’ora a parlare in italiano e a leggere dal libro i dialoghi preparati, spesso con pessima pronuncia, e ad attenersi alle regole grammaticali fornite dal materiale didattico senza spiegazioni ulteriori.

L’anno seguente, poi, mi è capitata la fortuna di seguire delle lezioni di un professore americano di geografia inglese e tutto è iniziato a cambiare. Lui parlava solo ed esclusivamente nella sua lingua madre, sebbene conoscesse molto bene l’italiano, e, durante le spiegazioni, usava tutta l’immensa lavagna a sua disposizione riempiendola con dei disegni stilizzati di ciò che stava spiegando, abbinandoli alle parole corrispondenti: magicamente, ancora a digiuno totale d’inglese, dopo tre mesi iniziai a capirlo e a prendere appunti intuendo come si scrivevano alcune parole che non conoscevo. Così, grazie a lui, ho iniziato ad amare l’inglese e a capire quanto potesse, anche, essere divertente da imparare; mancava però ancora l’interazione, il dialogo: mi sentivo stupida a parlare in inglese e avevo una paura terribile di sbagliare qualcosa. Ho continuato a guardare film in madrelingua mantenendo il fattore d’ascolto sempre presente ed in questi ultimi tre, quattro anni, sembrerà strano, ho scoperto il mondo dei giochi di ruolo on-line. I server a cui si appoggiano questi giochi non sono mai italiani (mentre ce ne sono di francesi, tedeschi, russi, a volte spagnoli) e, ovviamente, si tende a prediligere quelli inglesi. Molti italiani tendono a chiudersi in comunità (anche chiamate gilde) chiuse in cui possono parlare la propria lingua a causa della mancata conoscenza dell’inglese; io ho preferito, invece, cercare di interagire con più gente straniera possibile. Benché inizialmente un tantino timida nell’esprimermi, piano piano, ho teso a parlare/scrivere sempre un po’ di più fino a riuscire ad interagire in tempo reale, grazie anche alla comprensione da parte di persone, ormai amici, che ogni qualvolta mi scusavo per degli errori, anche stupidi, mi dicevano di non preoccuparmi perché me la cavavo comunque molto bene dal loro punto di vista. Tutt’ora, avendoglielo chiesto, se faccio qualche errore di cui non mi rendo conto mi correggono gentilmente. 

Non serve, quindi, andare in vacanza in Inghilterra o in America per conoscere, o meglio cavarsela, con l’inglese poiché al giorno d’oggi abbiamo la grossissima fortuna di poter interagire attraverso il web con persone straniere (anche non obbligatoriamente di madrelingua) in tempo reale. Il problema sostanziale dell’Italia, dal mio punto di vista, è la mancanza, individuale, di volontà di imparare e studiare l’inglese e non tanto (anche se aiuta) la lacuna enorme del sistema di insegnamento di questa lingua.

domenica 7 febbraio 2010

Istantanea di una decomposizione: l'arte di non laurearsi

L’altro giorno a lezione è arrivata una donna di quarant’anni e si è seduta accanto a me, dopo avermi chiesto quattro volte se il posto era libero, ha iniziato a parlarmi dei suoi problemi a trovare lavoro mentre io speravo che il professore arrivasse il prima possibile per salvarmi e cominciare la lezione.


Questa signora mi ha detto di essersi laureata in giurisprudenza e che ora aveva deciso di iscriversi a Filosofia perché qualcuno l’aveva informata della facilità maggiore nel trovare lavoro… con una laurea in Filosofia? Inoltre ha tenuto a sottolineare l’importanza del pezzo di carta comunemente chiamato “laurea” e che, in realtà, nel campo lavorativo non viene nemmeno calcolato se non come handicap: un laureato si paga di più di una persona che non ha studiato e per questo, tendenzialmente, le aziende evitano di assumerli.

Mi dispiace ammetterlo ma quello che ho pensato è stato: “quale persona sana di mente darebbe lavoro ad una piattola del genere?”, probabilmente le hanno consigliato di iscriversi ad un’altra facoltà solo per togliersela dalle scatole.


Qui in Italia tutti ci lamentiamo un po’ tutti della mancanza di proposte di lavoro a nostra disposizione poi, però, parlando qua e là scopriamo che ci sono altre possibilità che si tendono a scartare.


Le persone vogliono un lavoro il più vicino possibile a casa, con poche ore lavorative, ben retribuito, possibilmente dietro una scrivania, in cui non mettersi realmente in gioco in prima persona (evitare le responsabilità è una qualità prettamente italiana) e dove non ci si sporchi le mani (infatti, attualmente pochi sono gli operai di origine italiana giacché tendiamo a disprezzare questo tipo di professione, forse perché ci hanno insegnato a credere che studiare e inserirsi in un certo tipo di ambiente ci renda migliori e ci faccia vivere meglio con noi stessi, ma è davvero così?), per cui in questo momento stiamo cancellando la maggior parte d’impieghi compresi quelli all’estero proprio perché non siamo disposti a ricominciare da capo una vita o ad imparare una nuova lingua (l’inglese è ostrogoto per la maggior parte di noi).


Ci lamentiamo che gli insegnanti vanno in pensione ad un’età troppo avanzata e, di conseguenza, tolgano lavoro ai giovani: personalmente nella mia facoltà i professori della “vecchia scuola” si stanno estinguendo, ahimé, lasciando posto a giovani, incapaci, a volte, di avere un rapporto studente-insegnante equilibrato, dove l’errore più grande da entrambe le parti è prendersi troppo poco sul serio e prendendo tutto con superficialità e, quindi, mancanza di sensibilità.


Attualmente, quindi, non penso sia il lavoro in sé a mancare (sebbene in Italia effettivamente tutti sono reticenti a prendere nuovi impiegati, gli organi statali per mancanza di fondi e i privati perché già al completo per quanto riguarda il proprio personale oppure perché la meritocrazia italiana, cioè l’essere figlio di tal dei tali, ha premiato quello sbagliato) quanto il bisogno di chi lo cerca di attivarsi e mettersi in gioco, dovendo a volte fare dei sacrifici e decidere di fare una gavetta che tutti prima di noi hanno affrontato, spostandosi da casa e, magari, a volte cominciare proprio come operaio se abbiamo realmente voglia di mantenerci da soli.

domenica 17 gennaio 2010

Cani sciolti e padroni al guinzaglio




Avevo otto anni e passeggiavo col mio bel cagnone al guinzaglio, ricordo la paura paralizzante nel vedere un pastore tedesco venirmi addosso ed il terrore quando il mio cane si liberò dal collare attaccandolo per difendermi ed avendone la meglio, urlai ma nessuno intervenne.
Vivevo in un paesino di campagna dove mai nessuno, anche tutt’ora, ha imparato a non lasciare i propri cani liberi per strada. Oggi esiste il microchip sottocutaneo e tutti i proprietari, persino di cavalli, devono, per legge, farlo mettere al proprio animale. Questo, teoricamente, dovrebbe diminuire la libertà dei proprietari ma in realtà è inutile: basta uscire dalla propria regione (a volte anche solo dalla provincia) di residenza perché il segnale non venga captato (questo significa che se, malauguratamente perdiamo il cane lontano da casa possiamo scordarci di ritrovarlo).
A parte questa digressione su scomparse/abbandoni degli animali, il vero fulcro della discussione vorrebbe essere l’uso della museruola. Mi rendo conto che molti proprietari di cani siano contrari all’uso di questo mezzo inconsulto, molto spesso perché pensano che il loro cane sia buono come il pane ma se la stazza dell’animale si aggira sulla ventina di chilogrammi, ci farei un pensierino.
Non penso sia un fattore del pedigree dei cani che li rende buoni o cattivi ma di quello dei padroni: ogni animale, come ogni essere vivente, ha un proprio carattere e la sua educazione và plasmata a seconda di questo ma non significa che nasca buono o cattivo solo che in un certo caso bisogna avere la mano ferma mentre, magari, in un altro serve semplicemente dolcezza e calma.
Molte persone, però, vedono il proprio cane come segno del loro posto nella società, non è più “l’amico dell’uomo” ma lo strumento per distinguersi: non imparano a conoscerlo e così, un bel giorno, quell’animale non si fa più riconoscere rivoltandosi, a volte contro estranei ed altre contro il proprio padrone.
Tempo fa mi fece impressione vedere un bellissimo e dolcissimo San Bernardo (un tantino grosso come cucciolo) cambiare espressione degli occhi il momento stesso in cui la mano del suo padrone si avvicinava alla sua testa, mi sembrò di notare un lampo d’odio verso quell’uomo e così gli chiesi se mai questo cagnone aveva morso qualcuno: certo che lo aveva fatto, aveva morso proprio lui alla mano (probabilmente come avvertimento, altrimenti se non se la sarebbe cavata con qualche punto).
Uno dei miei cani, per esempio, odia i bambini a morte, le hanno fatto così tanti dispetti (anche sotto gli occhi dei genitori che attoniti mi guardavano ogni qualvolta chiedevo loro cortesemente di allontanarsi dal recinto perché il cane mordeva) con petardi e cattiverie varie che mai, assolutamente, la farei avvicinare ad un bambino e sto, comunque, attenta anche quando passeggiamo per strada (sempre e rigorosamente al guinzaglio), perché sarebbe capace di morderlo senza timore (in realtà lo farei anch’io nei suoi panni, ma questo non significa che debba lasciarla libera).

sabato 9 gennaio 2010

"A Kind of Blue"



English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/blue-movie-by-derek-jarman.html


“Abituato a credere nell’immagine,
in un'idea assoluta di valore,
il mondo ha dimenticato l’imperativo della sostanza,
non ti farai scultura né immagine,
benché tu sappia che il tuo compito consista
nel riempire la pagina vuota,
dal profondo del tuo cuore,
prega di essere liberato dall’immagine”.


La maggior parte di persone, riferendosi ad un film, crea delle categorie in cui porlo. La classifica che tendenzialmente aborro è quella del “non l’ho capito, ergo non mi piace” dove praticamente vengono inseriti puntualmente i registi che più amo.

Questo discorso nasce da una mia necessità oppure, potrei dire, piacere nel parlare di un film, al di là di tutti questi incasellamenti inutili, usandolo come trampolino di lancio verso una conversazione meno fatua.

Un film, personalmente, lo considero bello il momento in cui riesce a lasciarmi un segno, a produrre in me delle sensazioni, degli stimoli: non ha importanza se questi siano o meno piacevoli. Inoltre, trovo che la cosa più bella e più interessante sia farsi trascinare dal film: lasciarsi attraversare sorvolando i fattori tecnici o di comprensione, semplicemente guardarlo.

Ricordo il bisogno, non accontentato, di mettere in pausa “Non è un paese per vecchi” dei Coen a causa della tensione che mi trasmetteva, oppure la nausea psicologica creata da alcune scene di “Antichrist” di Lars Von Trier, o, ancora, il rapimento che provo ogni qualvolta mi fermo a contemplare un film di Tarkovsky, o la paura creata in noi da “Shining” di Kubrick nel quale l’immagine ed il montaggio ci preparano a ciò che vedremo ma la colonna sonora ci fa sprofondare in un silenzioso terrore.

A questo proposito potrei erigere a baluardo di questa tesi “Blue” di Derek Jarman. Questo lungometraggio è completamente privo di immagini, davanti allo spettatore si presenta solamente con uno schermo blu, sinonimo di inizio e fine di un programma, accompagnato da delle voci, dei suoni e dei canti: tutto ciò che può “vedere” un cieco.

Il regista ci racconta il proprio percorso di declino a causa della contrazione del virus HIV (più comunemente chiamato AIDS). Seguire ad occhi chiusi questa voce che parla di sé, attraverso piccoli ritagli di memoria, che ci accompagna attraverso un sentiero di cecità ed, in seguito, verso un sospiro di morte, è struggente, trasmette una sensazione di impotenza e tristezza ed allo stesso tempo d’infinità. Il film s’incarna attraverso il colore Blu, luogo di contrapposizioni, similitudini ed introspezione. 

L’immagine stessa viene negata perché “è una prigione dell’anima, la tua eredità, la tua educazione, i tuoi giudizi ed aspirazioni, le tue qualità, il tuo universo psicologico”, lasciandoci in un lacunoso oceano di vuoto e di possibilità illimitata.