sabato 9 gennaio 2010

"A Kind of Blue"



English Version: http://anakuklosis-eng.blogspot.com/2010/12/blue-movie-by-derek-jarman.html


“Abituato a credere nell’immagine,
in un'idea assoluta di valore,
il mondo ha dimenticato l’imperativo della sostanza,
non ti farai scultura né immagine,
benché tu sappia che il tuo compito consista
nel riempire la pagina vuota,
dal profondo del tuo cuore,
prega di essere liberato dall’immagine”.


La maggior parte di persone, riferendosi ad un film, crea delle categorie in cui porlo. La classifica che tendenzialmente aborro è quella del “non l’ho capito, ergo non mi piace” dove praticamente vengono inseriti puntualmente i registi che più amo.

Questo discorso nasce da una mia necessità oppure, potrei dire, piacere nel parlare di un film, al di là di tutti questi incasellamenti inutili, usandolo come trampolino di lancio verso una conversazione meno fatua.

Un film, personalmente, lo considero bello il momento in cui riesce a lasciarmi un segno, a produrre in me delle sensazioni, degli stimoli: non ha importanza se questi siano o meno piacevoli. Inoltre, trovo che la cosa più bella e più interessante sia farsi trascinare dal film: lasciarsi attraversare sorvolando i fattori tecnici o di comprensione, semplicemente guardarlo.

Ricordo il bisogno, non accontentato, di mettere in pausa “Non è un paese per vecchi” dei Coen a causa della tensione che mi trasmetteva, oppure la nausea psicologica creata da alcune scene di “Antichrist” di Lars Von Trier, o, ancora, il rapimento che provo ogni qualvolta mi fermo a contemplare un film di Tarkovsky, o la paura creata in noi da “Shining” di Kubrick nel quale l’immagine ed il montaggio ci preparano a ciò che vedremo ma la colonna sonora ci fa sprofondare in un silenzioso terrore.

A questo proposito potrei erigere a baluardo di questa tesi “Blue” di Derek Jarman. Questo lungometraggio è completamente privo di immagini, davanti allo spettatore si presenta solamente con uno schermo blu, sinonimo di inizio e fine di un programma, accompagnato da delle voci, dei suoni e dei canti: tutto ciò che può “vedere” un cieco.

Il regista ci racconta il proprio percorso di declino a causa della contrazione del virus HIV (più comunemente chiamato AIDS). Seguire ad occhi chiusi questa voce che parla di sé, attraverso piccoli ritagli di memoria, che ci accompagna attraverso un sentiero di cecità ed, in seguito, verso un sospiro di morte, è struggente, trasmette una sensazione di impotenza e tristezza ed allo stesso tempo d’infinità. Il film s’incarna attraverso il colore Blu, luogo di contrapposizioni, similitudini ed introspezione. 

L’immagine stessa viene negata perché “è una prigione dell’anima, la tua eredità, la tua educazione, i tuoi giudizi ed aspirazioni, le tue qualità, il tuo universo psicologico”, lasciandoci in un lacunoso oceano di vuoto e di possibilità illimitata.



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