martedì 2 marzo 2010

"Invictus" di Clint Eastwood


 “Dal profondo della notte che mi avvolge,buia come il pozzo che va da un polo all’altro,
ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile.
Nella morsa delle circostanze,
non ho indietreggiato, né ho pianto.
Sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
incombe, ma l’orrore dell’ombra,
e la minaccia degli anni
non mi trova, e non mi troverà, spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la pergamena,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima…” 

 
Ieri sera sono andata al cinema a vedere l’ultimo film di Clint Eastwood, “Invictus”. Devo ammettere che non ero molto convinta di volerci andare a causa della presenza, molto accentuata, dell’elemento sportivo che, personalmente, non mi entusiasma ma alla fine mi sono convinta, complice il bisogno di staccare il cervello da “uno studio matto e disperatissimo”.

Il regista, ispirandosi al romanzo “The Human Factor: Nelson Mandela and the Game that Changed the World” di John Carlin, ha deciso di filtrare la storia di Mandela (impersonato da Morgan Freeman) attraverso quella della crescita, a livello agonistico, della squadra di rugby del proprio Paese, gli Springboks, fino a portarla alla vittoria del campionato mondiale del 1995. 

Le prime riprese sono dedicate a dei falsi documentari, ricostruzioni di alcuni pezzi di storia filmati con Morgan Freeman al posto di Mandela, probabilmente con la precisa volontà registica di evitare la storia della biografia di quest’uomo politico, sottolineandone la scelta di una lettura personale relativa ad un aspetto particolare. Interessante è notare come Clint Eastwood abbia deciso di filmare l’intera pellicola esattamente nei luoghi originari in cui si è svolta la vera storia.  

Inizialmente presentato come un mito agli occhi della gente, Mandela, a poco a poco, nel dipanarsi del film, ci viene presentato come uomo e, successivamente, proprio grazie alla sua umanità come invincibile (tramite la lettura di una poesia di William Ernest Henley, “Invictus”, regalata al capitato della squadra di rugby, François Pienaar (impersonato da Matt Damon) e che aveva accompagnato Mandela, nel superamento dei difficili anni di prigionia.

Vediamo questo uomo politico, talmente immerso nel suo lavoro dal non avere orari. La sua figura diviene sintomatica del tentativo di unire coloro che lo amano e l’hanno votato, la popolazione di colore, con coloro che vorrebbero restaurare il vecchio governo, i bianchi. 

Questa separazione di intenti viene sottolineata in modo ideologico dalla squadra di rugby della nazione (ma anche dal soprannome, dato con affetto al presidente dalla popolazione indigena, Madiba), nella quale gioca un unico ragazzo di colore; la squadra stessa è odiata dai primi (tanto da volerne il cambio del nome e dei colori della maglia) ed amata dai secondi.

Mandela, avendo simpatia per questo tipo di sport, ed osservando questa scia di razzismo che la popolazione di colore nutre a causa delle ingiustizie subite in passato, decide di occuparsi personalmente della reintegrazione della squadra così da renderla, infine, simbolo di una coesione neppure immaginata in precedenza.

Un uomo solo, con una figlia che non comprende le sue scelte politiche, malato a causa della mancanza di riposo ma amato da un intero Paese, giudicato da lui stesso la propria famiglia. La scena più toccante è il momento in cui la squadra di rugby va in visita alla prigione in cui Mandela, anni prima di diventare presidente, era stato rinchiuso: piccola (cinque metri quadrati) e buia, con delle coperte a terra che fungevano da letto ed una sedia; lo sguardo di Damon accompagna la nostra immaginazione facendoci vedere quest’uomo seduto sulla sedia, in questo angusto spazio, leggere una poesia (“Invictus”), che ascoltiamo decantata dalla stessa voce fuori campo di Morgan Freeman, e poi, osserviamo Mandela, ai lavori forzati, guardarci mentre sentiamo le parole “Io sono invincibile”. 

Invincibile perché al di là di tutto il male che abbiano potuto fargli è riuscito a superare tutto ciò, cercando quello che, secondo lui, era il bene per la sua nazione, per la sua famiglia. 

Raccontato così, sembra un po’ retorico e una specie di panegirico della figura di Mandela, ma la presenza del rugby tende proprio a mitigare questa celebrazione ponendola come corollario di una storia che gioca su un sottile equilibrio a cavallo tra mito e uomo, lasciando comprendere allo spettatore quanto in realtà Mandela non incarni una superficiale mitografia, di sapore agiografico, ma  incorpori ed esprima la necessità di attuare un radicale rivolgimento storico, politico e sociale, assolvendo il suo destino di guida e leader sul cammino della redenzione di una coscienza civile, al di là del grigiore di sterili incomprensioni.

Il film, per chi conosce bene la storia di Mandela, potrebbe sembrare un po’ scontato, a volte semplicistico, ma proprio per questo, attraverso il tipico stile asciutto e lineare di Eastwood, si trasforma in una pellicola di facile fruizione per un pubblico poco preparato sull’argomento, trasmettendogli un nuovo interesse per questa figura, e piacevole anche per quegli spettatori, più esigenti, che decidono di lasciarsi raccontare “una storia” e non una biografia dettagliata.

Nessun commento:

Posta un commento