giovedì 25 marzo 2010

Oltre l'uomo senza qualità...




La filosofia è morta e l’abbiamo uccisa noi, a parte qualche barlume d’uomo disperso qua e là nel marasma in cui ci muoviamo.


Persino nelle aule universitarie, durante le lezioni, si può avvertire il peso di questo immenso lutto. Parliamo di date e dati, a volte, se siamo fortunati, assistiamo ad un dibattito “pilotato” nel tentativo di far accettare allo studente la verità in cui il professore crede, forzando, stirando e sfaldando autori estrapolandoli dal loro contesto. Cerchiamo di sotterrare le parole scritte spingendole nell’auto-fraintendimento, disgregandole ed obbligandole a riplasmarsi tradendo il proprio autore.   

Dov’è, mi chiedo allora, finita la domanda? Cerco l’uomo, ma dov’è l’uomo se la domanda è scomparsa? La filosofia è un continuo chiedere, interrogarsi, scontrarsi e confrontarsi al di là di ciò che tendo a chiamare dogmi, ossia delle certezze entro le quali ci rinchiudiamo per scelta o consolazione, ma oggi in quanti di noi vogliono realmente mettersi in gioco e rischiare di perdersi in una foresta? Sebbene ognuno di noi tenda a sentirsi l’eletto, il demiurgo della situazione, per presunzione, pochi di noi comprendono quanto non sia importante sapere e conoscere qualcosa con certezza quanto cercare, mutare, non divenire statici ed avere il coraggio di cambiare la propria idea.

Chi si sorprende più ormai? Crediamo che desensibilizzarci ci renda più forti, in realtà ci rende solamente più schizofrenici: la forza delle emozioni, quella che ti libera da tutte queste catene autoimposte dalla società che costruisce cyborg viene vista come qualcosa da cui distanziarsi. 

Non sappiamo più sognare: ci limitiamo a schematizzare tutto, persino i sentimenti. Arriviamo ad amare qualcuno per vari calcoli fatti: come in una tabella scegliamo il nostro patner a seconda delle sue qualità senza pensare a ciò che proviamo realmente per quella persona. Scegliamo il nostro lavoro per soldi e facilità nell’espletarlo. Guardiamo un film ed invece di lasciarci andare, di lasciar battere il cuore a ritmo dei suoni che ci inondano, ascoltare il fluire della pellicola che passa davanti ai nostri occhi ci chiediamo il significato di una trama per capirne la morale finale, quel qualcosa che mette un punto a tutta la fruizione, quel qualcosa che fa sì che quel film non scavi dentro di noi, che ci insegni ad interpretare i mondi entro cui si muove (e mentre scrivo questo penso ad esempio a David Lynch).

L’arte cerca di violentarci e noi rimaniamo a guardarla impassibili: niente ci tocca se non può ferirci fisicamente, quale orrore! (“L’orrore… l’orrore” diceva Kurtz alla fine di “Cuore di Tenebra” di Conrad, oppure, per chi non lo conosce in “Apocalypse Now” di Coppola).

Siamo fieri di trasformarci in pietre, di mostrarci forti agli occhi di altri che, come noi, credono nella forza dell’impassibilità senza comprendere quanto, al giorno d’oggi, sia più forte la persona che ha il coraggio di mostrare le proprie lacrime, perché libera da delle gabbie che rendono tutti gli altri repressi all’interno di un meccanismo mentale che li stringe in una morsa per poi sfociare, nel migliore dei casi, in crisi di panico apparentemente insensate.

Usiamo dei trucchi per dissociarci e provare qualche ebbrezza perché abbiamo rifiutato il nostro cuore che, dentro di noi, si ribella e richiede umanità ma non possiamo più dargliela. Droghiamo i nostri sensi per sentirci onnipotenti ed allo stesso per provare quel qualcosa che non siamo più in grado di sentire: ma degli dèi immortali senza cuore e dolore, sogni e lacrime, che senso hanno d’esistere?

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